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Il gioco dell'OCA

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(scusate... Siccome tanti ora stanno scoprendo l'acqua calda, e siccome qualcuno continua a fare il furbetto, pubblico col mio permesso un pezzo del mio libro che spiega perché con l'euro le cose non possono funzionare. Diciamo che è una spiegazione non tecnica dei saldi settoriali, quelli che abbiamo spiegato in modo appena più tecnico qui e qui. Da qui in avanti chi non avrà capito non avrà scuse: o sarà un dilettante, un diversamente economista, o sarà un furbetto, uno con rendite di posizione politiche da difendere. Noi andremo avanti sulla strada della contabilità, e il nostro economista preferito su quella della verità. Quoniam ipsi saturabimur)

(English version here)

Da "Il tramonto dell'euro", p. 220.

Il gioco dell'OCA




Dietro all’ossessione per il pareggio del bilancio, però, potrebbe esserci un motivo più profondo, forse nemmeno consapevole, ma comunque saldamente iscritto nella logica della contabilità macroeconomica. Cerco di spiegarvelo meglio che posso.


Abbiamo visto che l’economia non è solo “offerta”, come pensano i luogocomunisti. Il barista più bravo non è quello che fa cento caffè all’ora, ma quello che li vende, e per venderli non basta metterli sul bancone. In un Paese la domanda di beni può essere espressa dalle famiglie, dalle imprese, dal governo, o dal resto del mondo: gli economisti parlano di consumi (delle famiglie), di investimenti fissi (delle imprese), di spesa pubblica (del governo) e di esportazioni (verso il resto del mondo).


Ora, queste voci di domanda non sono tutte uguali. “Certo!” interviene petulante il luogocomunista. “La spesa pubblica è improduttiva!” A cuccia, amico, latrerai dopo con calma, ora fammi finire. La differenza che m’interessa farvi capire è un’altra. I consumi e gli investimenti fissi, in qualche modo, dipendono dal reddito nazionale: famiglie e imprese possono spendere in funzione di quanto hanno guadagnato, o si aspettano di guadagnare. Gli investimenti, certo, dipendono da tante cose, fra le quali il costo del denaro, ma nelle spiegazioni più classiche è comunque determinante il ruolo della domanda, cioè del reddito.[1] La spesa pubblica e le esportazioni, invece, non dipendono dal reddito nazionale: sono voci “autonome” (dal reddito nazionale). Le esportazioni dipendono dal reddito dei nostri partner commerciali (non dal nostro), e la spesa pubblica non dipende dal reddito nazionale, se si ammette la possibilità per lo Stato di finanziarla in deficit.


Perché vi faccio questo discorso? Semplice: in condizioni di crisi crollano i redditi e il sistema si trova in eccesso di offerta (tanti lavoratori che vorrebbero lavorare, cioè offrire i loro servizi di lavoro, stanno a spasso). Per rimettere le cose a posto ci vuole quindi più domanda, che necessariamente deve essere autonoma, perché se i redditi sono caduti, non si può contare su consumi e investimenti fissi (che dai redditi dipendono) per rimettere in piedi la situazione: è un cane che si morde la coda. La ripresa può venire quindi o dall’intervento pubblico, cioè dalla spesa in deficit, o dalle esportazioni. Naturalmente, se un insieme di Paesi adotta regole fiscali pro-cicliche, cioè che lo costringono a ridurre la spesa pubblica quando le cose vanno male, l’unica forma di domanda autonoma alla quale si può far ricorso è quella estera, le esportazioni.


L’imposizione di regole fiscali rigide costringe quindi i membri dell’Unione a sostenere la crescita nazionale con la domanda estera. Ma la logica dell’Unione impone che in caso di crisi, per giocare a questo gioco, si debba ricorrere alla svalutazione “interna”, quella delle retribuzioni, visto che la svalutazione “esterna”, quella della valuta, ovviamente non è possibile. Una logica descritta magistralmente da un lettore del mio blog: “È come se io rinunciassi a mangiare a casa mia per avere più patate da vendere al mercato”. Sembra assurdo, vero? Ed è chiaro, ce lo siamo già detto, che non può funzionare, perché se tutti esportano, chi importa?

Ma il fatto è che imponendo la “sterilizzazione” del saldo pubblico, la Germania ha costretto tutti gli altri Paesi membri a giocare al gioco del mercantilismo, sapendo che i più deboli lo avrebbero perso, per due precisi motivi: primo, perché “rinunciare a mangiare a casa propria” (leggi: moderare i salari) comporta meno sacrifici per un Paese che, come la Germania, parta da posizioni di relativo vantaggio;[2] secondo, perché chi ha imposto le regole, le ha poi cambiate a suo uso e consumo, arrogandosi questo diritto in base a una pretesa superiorità morale, quella, se ricordate, dell’adultero sull’adultera.





[1]. A chi lo avesse studiato, ricordo il modello dell’acceleratore di Samuelson. A chi legittimamente trovasse queste parole un po’ misteriose, mi limito a far osservare che normalmente nessuno costruisce uno stabilimento se non si aspetta che qualcuno compri quello che verrà prodotto. Il reddito, quindi, in quanto indicatore della domanda futura e delle attuali capacità di spesa, influenza in modo positivo le decisioni di investimento.

[2]. Nel 1999 il reddito pro-capite di Portogallo e Grecia, calcolato a parità di poteri d’acquisto (cioè tenendo conto delle differenze nel costo della vita), era circa il 70 per cento di quello tedesco, e quello spagnolo era circa l’85 per cento. Possiamo supporre che sacrifici in termini di moderazione salariale siano più facili da proporre politicamente a una popolazione relativamente più benestante, piuttosto che a una più povera, soprattutto quando a quest’ultima l’ingresso nell’unione monetaria è stato proposto fra l’altro come mezzo per riscattarsi da un recente passato di povertà (all’inizio degli anni Ottanta Grecia e Portogallo erano ancora classificati come Paesi in via di sviluppo dalla Banca mondiale).

 




(per gli ultimi arrivati: OCA è una Optimum Currency Area, un'area valutaria ottimale. Se imponi una moneta unica a una zone che non è un'area valutaria ottimale, poi succede che ti ritrovi al punto di partenza, come nel gioco dell'oca. È esattamente quello che è successo a noi).




Lezioni dalla crisi: perché il Parlamento dovrebbe sfiduciare la Commissione

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(il testo del mio intervento al convegno "Morire per l'euro?", organizzato dal gruppo EFD presso il Parlamento Europeo il 3 dicembre 2013. Qui il video originale).

(English versionhere)



Grazie Magdi per l'invito a questo incontro così importante. Vi parlerò in inglese, e in questo c’è un’amara ironia. Perché? Perché l'inglese è la lingua del paese dov'è nata la scienza economica, almeno così come la conosciamo oggi, e che forse per questo motivo non è entrato nell'euro e sta seriamente considerando l'uscita dall'Unione Europea.

È abbastanza paradossale che per poter essere capito dalla fetta più vasta possibile di cittadini europei io debba utilizzare proprio la lingua di questo paese. È una lezione importante per quanti credono che gli Stati Uniti d'Europa siano una possibilità vera, concreta. In effetti la lezione è duplice.

Primo: qui c'è una maggioranza di italiani e la soluzione più democratica sarebbe che io parlassi in  italiano. Ma vi do una lezione di politica europea: io appartengo ad un'élite, ne vado fiero, quindi decido per voi e parlo in inglese. E questa è la prima lezione.

Seconda lezione: non sono contro l'Europa. Posso viaggiare in Europa, parlando nelle rispettive lingue con buona parte delle popolazioni che incontro. La prima volta che sono andato in Portogallo mio figlio ha detto a mia moglie: “Questo è il primo paese dove il babbo non parla la lingua locale!”, ed è vero, perché purtroppo non parlo il portoghese e non lo capisco. Ma con l'inglese si può praticamente girare il mondo, e anche l'Europa.

Fatta questa premessa, andiamo avanti con il contenuto.

Nel mio intervento cercherò di mettere i problemi che stiamo vivendo nella giusta prospettiva. La prima cosa che vi mostrerò è che gli squilibri finanziari, e quindi le crisi debitorie, derivano spesso da squilibri di distribuzione del reddito. Questo non va sottovalutato perché ci dà indicazioni positive rispetto a quello che dovremmo fare una volta fuori dall'euro. Secondo punto: il matrimonio tra moneta unica e riforme economiche è burrascoso. Ci è stato detto che la moneta unica ci avrebbe costretto a riforme che erano assolutamente necessarie, ma ora sappiamo che la letteratura economica presenta molte argomentazioni per confutare queste argomentazioni e sostenere la tesi contraria: i tassi di cambio fissi, o peggio la moneta unica, in realtà sono strumenti utili per procrastinare le riforme economiche. Poi andrò avanti presentando le due principali lezioni derivanti dalla crisi: la prima è che dovremmo cominciare da una riforma del mercato del lavoro a livello europeo, la seconda è che dovremo togliere di mezzo l'euro.

Queste sono due condizioni necessarie, per i motivi che presto vi spiegherò e che in parte sono stati spiegati anche da Antonio e da Claudio.

Un’altra premessa: la crisi della zona euro ha origine nella finanza privata. Gli squilibri finanziari nel settore privato sono stati promossi da problemi di competitività e da mercati finanziari non regolamentati. È un’impostura presentare la crisi della zona euro come crisi di debito pubblico.Questo non ve lo dice Claudio Borghi Aquilini, ma Vítor Constâncio...

E chi è questo Vítor Constâncio? Il vice presidente della Banca Centrale Europea. Sentiamo dunque la parola di questo signore con la “S” maiuscola:

“Gli squilibri han trovato origine principalmente dalle spese nel settore privato”, punto secondo:  “finanziate dal settore bancario dei paesi creditori e debitori”, punto terzo: “il mercato finanziario europeo non ha funzionato in conformità con la teoria economica” (aggiungo: secondo la sua teoria, perché altri economisti invece avevano previsto quello che poi sarebbe successo e sta succedendo), punto quarto: “l’esposizione creditoria verso i paesi sotto stress è più che quintuplicata” (e questo ve l'ha mostrato Claudio, facendo vedere che l’Italia è stata il paese meno coinvolto in questa esplosione massiccia del debito estero), e infine: “ciò ha portato alla perdita di competitività”.

Sintesi: le economie periferiche sono state drogate dal debito estero proveniente dai paesi “core”. 


Non c'è bisogno di applaudirmi perché è banale... è banale, tutto quello che dirò oggi sono banalità, qualsiasi economista lo sa, credetemi, credete a me, non a Mario Draghi! 

Andiamo a vedere la spesa pubblica primaria nella zona euro. L'Italia spesso è accusata da persone provenienti da altri paesi, per lo più esportatori di zanzare,  che l'accusano di essere uno dei paesi col settore pubblico più spendaccione, uno dei paesi meno accorti. Ciò è semplicemente falso.



Andate a vedere i dati: l'Italia ha un rapporto spesa pubblica/Pil che è vicino, e al disotto, della media della zona euro, se considerate la spesa pubblica primaria. Se aggiungete la spesa per interessi la situazione peggiora, ma non di tanto. Notate un altro dettaglio: la Francia, la Finlandia, l'Austria, il Belgio, l'Olanda, la Germania, insomma, i cosiddetti "virtuosi" spendono molto più, in rapporto al loro Pil, dell’Italia e dei cosiddetti PIGS: Portogallo, Grecia, Spagna e Irlanda. Suppongo che questi dati non vi fossero noti: molti non li conoscono, ma questi dati sono importanti perché mostrano una semplice cosa: un’intera classe politica, un intero sistema dei media vi sta mentendo. E siamo in democrazia, non è vero?

Andiamo avanti. Il mantra! Viviamo nell’economia dei mantra:dobbiamo diventare più competitivi, quindi dobbiamo comprimere i costi del lavoro (perché i costi delle materie prime sono in buona parte esogeni, per cui possiamo agire nel breve solo su quelli del lavoro), dobbiamo diventare più produttivi...

Andiamo a vedere l'esperienza storica di un’economia avanzata che spesso ci viene portata ad esempio. Perché? Perché qualcuno pensa che i nostri problemi possano essere risolti diventando gli Stati Uniti d'Europa. Andiamo allora a vedere cosa è successo negli Stati Uniti d'America.


(Fonte: Wolff, R., 2010. "In capitalist crisis, rediscovering Marx", Socialism and Democracy, 24:3, 104-146; vedi anche questo post per dati di altra fonte). 


Questo è un grafico interessante a mio modo di vedere: in blu vedete la produttività del lavoro, in rosso i salari reali. Sono indici che vanno dal 1890 al 2007, all'inizio dell’ultima crisi in sostanza. Cosa vedete? Vedete che ci sono stati periodi in cui la produttività è cresciuta più rapidamente dei salari reali, soprattutto alla fine del campione. Se crediamo al mantra, questi avrebbero dovuto essere periodi di prosperità, perché un paese dove cresce la produttività e i salari reali ristagnano diventa più competitivo. Ma guardiamo questa tabella, dove ho riportato i tassi di crescita medi delle variabili. Certo, siamo in una istituzione politica e qui le cifre forse non sono benvenute, ma vale la pena di dare un’occhiata a questi dati.



Ho sottolineato in rosso i due periodi in cui la produttività del lavoro è cresciuta più rapidamente rispetto ai salari reali; il primo periodo dal 1919 al 1932, quello nel quale è maturata e esplosa la crisi di Wall Street, il secondo periodo dal 1971 al 2011, nel quale è maturata ed esplosa la crisi della Lehman Brothers. Vedete anche che i salari reali sono cresciuti più della produttività durante il New Deal negli Stati Uniti, e allo stesso tasso di crescita della produttività dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel periodo in cui gli Stati Uniti d'America hanno liquidato gli enormi debiti di guerra accumulati per liberare l'Europa da quello che sapete voi.

La domanda è: perché le cose vanno così male quando ci comportiamo “bene”? Perché ci sono crisi alla fine dei periodi in cui siamo così competitivi? E la risposta è semplice: perché il capitalismo funziona se c'è abbastanza domanda aggregata. Non si produce per produrre: si produce per vendere. Se si reprimono i salari la domanda deve essere finanziata attraverso l'indebitamento, e ci sono diversi tipi di indebitamento che possono essere utilizzati per questo scopo. Se siete keynesiani, proteste utilizzare il debito pubblico. È successo negli anni ’80 negli Stati Uniti d'America: sembra paradossale, ma è successo sotto il governo repubblicano di Reagan, e nello stesso periodo è successo anche in Italia col socialista Craxi. Se siete invece siete liberisti, economisti conservatori, diciamo, forse potreste apprezzare il debito privato: “lasciamo liberi i capitali, lasciamo funzionare il mercato”. Se infine siete tedeschi, preferirete utilizzare il debito degli altri, praticando una politica mercantilista: prestare (incautamente) agli altri per fare in modo che gli altri comprino i vostri prodotti, naturalmente comprimendo i salari a casa vostra. Questo è quello che ha fatto la Germania. Nel breve periodo è un metodo molto furbo, non lo contesto, ma purtroppo porta ad un sistema instabile, perché favorisce un eccesso di indebitamente estero, e ora stiamo pagando il prezzo di questa instabilità.



Nel periodo della globalizzazione abbiamo visto repressione salariale ovunque nel mondo. Qui  abbiamo i dati per gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e l'Italia. La caduta principale della quota salari è stata pari -8% in Germania, in Italia -5%, comunque c'è stata una riduzione un po' dappertutto. La compressione dei salari nel breve periodo è una politica che frega il vicino: si cerca di fare dumping salariale, di pagare il lavoro a vile prezzo, per essere più competitivi e vendere di più all'estero, crescere sulla domanda altrui (finanziata dal debito) anziché sulla propria (finanziata dal reddito). Alla fine però diventa sempre una politica che frega se stessi, perché la compressione dei salari distrugge il mercato interno e in un'Unione Economica distruggere il mercato interno significa andare contro la logica dell'economia. Perché? Perché come ha detto Alberto Alesina, che insegna all'Università di Harvard (non alla Gabriele D'Annunzio), come ha detto Alesina molto chiaramente nel 1997, quando era contrario all'euro, il beneficio principale di una unione economica è quello di godere di un vasto mercato interno che può agire da ammortizzatore rispetto a choc esterni (qui, nel suo commento a Obstfeld). Insomma, se c'è una recessione da qualche parte nel mondo noi vendiamo di meno all’estero, certo, se c'è una domanda sufficiente a casa, nel mercato interno, se il mercato interno è molto grande, non fa niente: si continua a crescere. Ora, questo non è successo nella zona euro, ma perché? Perché l’Eurozona è stata gestita come un gioco a somma zero, dove quello che vinceva la Germania veniva perso dai paesi del Sud, come ha spiegato così bene Claudio.

Il gioco a somma zero sta diventando un gioco a somma negativa. L’euro è un morto che cammina. 

  


Lo vediamo bene in questo grafico pubblicato dal Washington Post. Dopo lo shock Lehman, gli Stati Uniti, la zona euro e il Giappone sono caduti assieme, poi hanno ripreso a crescere. Ma nel 2011 c'è stato Fukushima in Giappone, Mario Monti in Italia e la troika nella zona euro. Lo tsunami è durato un giorno e poi il Giappone ha ricominciato a crescere. La troika c'è ancora, è ancora al potere nell’Europa periferica, e quel che fa davvero paura è che questo morto che cammina sta camminando nella direzione sbagliata: dovrebbe salire, invece sta scendendo. Ricordatevelo, questo grafico!

Quello che è veramente triste, dal punto di vista di un economista accademico, è che tutto questo era stato previsto dalla teoria economica. Sappiamo molto bene che i politici hanno scelto di prendere una decisione che andava contro la logica economica, perché ostacolando o alterando il funzionamento del mercato la moneta unica avrebbe avuto effetti perversi sia sul settore pubblico che su quello privato, sia dei paesi deboli che di quelli forti. Non  dimenticatevelo mai: tutti questi effetti sono ed erano noti, e sono meno evidenti per i paesi forti, ma ci sono anche per loro, ed è per questo motivo, per gli effetti avversi, perversi, sui paesi forti che ritengo che l'euro presto finirà.

Quali sono gli effetti perversi sui paesi deboli? Le cose non stanno come ci era stato detto. Una moneta forte, dicevano, avrebbe avuto come effetto la “disciplina” del settore pubblico. La letteratura economica ci dice che le cose stanno al contrario, in realtà. Se adottiamo un tasso di cambio fisso e il governo pratica una politica fiscale o monetaria troppo espansiva, non ci sono effetti sul mercato valutario. Se invece il cambio è flessibile, una volta che il paese si impegna in una politica monetaria e fiscale troppo espansiva va in deficit estero, s’indebita col resto del mondo, e il tasso di cambio svaluta. In questo caso il deprezzamento del tasso di cambio dà al mercato un segnale immediato del fatto che le cose non stanno andando per il verso giusto.

Perché mai la gente ha continuato a prestare soldi alla Grecia al ritmo del 10% del Pil greco e oltre per anni? Perché la Grecia era credibile. E perché era credibile? Perché aveva l'euro, aveva un cambio fisso, e quindi non c'erano segnali provenienti dal mercato che potessero avvertire gli agenti economici che le cose stavano andando storte. Questo è il problema: AaronTornell e Andrés Velasco l'hanno spiegato sul Journal of Monetary Economics, non sulla Pravda o su qualche rivistella italiana di provincia, no: sulla più importante rivista scientifica nel campo dell’economia monetaria, pubblicata da Elsevier, la casa editrice scientifica più prestigiosa.

Poi c’è un altro problema, sempre riferito alla creazione di incentivi “perversi”, che Martin Feldstein sottolineò sul Journal of Policy Modeling: se si prende una valuta unica si avrà un unico tasso di interesse, e questo sarà troppo basso per i paesi deboli (sia per il loro settore pubblico che per quello privato). Ora la Germania ci accusa, ci dice che abbiamo avuto condizioni di credito troppo facili, troppo buone, ed è vero! È verissimo! Ma è proprio questo l’argomento che dimostra quanto sia illogico l’euro, perché diversi paesi devono avere tassi di interesse diversi per gestire bene le loro economie. Ribadisco: tra l'altro anche il settore privato nei paesi deboli ha un incentivo indebitarsi troppo, e questo fondamentalmente è quello che ha detto Vítor Constâncio, come ricordavo all'inizio della mia presentazione. Peraltro questa argomentazione era stata esposta molto chiaramente da Roberto Frenkel e Martin Rapetti in un'altra rivista scientifica di primissimo ordine, il Cambridge Journal of Economics, circa 4 anni fa. Sottolineo la rilevanza scientifica delle riviste per evidenziare come questi studi non potessero passare inosservati ai professionisti dell'economia (a meno che non intendessero ignorarli per motivi di tattica politica).

Attenzione: ci sono effetti perversi anche sui paesi forti, ed è importante sottolinearlo. Se si abolisce il rischio di cambio, se si eliminano i segnali legati ai tassi di cambio, le istituzioni finanziarie e private dei paesi forti presteranno troppo all'estero. Le banche tedesche hanno prestato troppo all'estero.Non ti puoi indebitare troppo se non c'è nessuno che presta troppo. Avete mai cercato di avere i soldi della vostra banca? E allora sapete come vanno le cose. La moneta unica poi ha un altro incentivo perverso, per i paesi forti, oltre a quello di spingerli a prestare troppo. Come ha spiegato Claudio, la moneta unica è troppo debole per i paesi forti, come la Germania, e consente dunque ad essi di fare grandi profitti rispetto esportando verso i paesi deboli. Il rovescio della medaglia è che questa facilità di far profitti col cambio drogato disincentiva gli investimenti produttivi. Il settore privato non finanziario dei paesi forti investe troppo poco a casa propria. Hans-Werner Sinn, un importante economista tedesco, ha presentato questa argomentazione, non un economista americano “invidioso”, o un “pigro” economista italiano, no, è un professionista bravo, che ammiro (non sempre), ed è soprattutto un economista tedesco.



Andiamo a vedere i dati: la Germania è il paese col più basso rapporto tra investimento e PIL in Europa nel periodo 1999-2007. Insomma: dimenticatevi la favoletta dalla Germania che è competitiva perché investe tanto. Scordatevelo,va bene?

Andiamo avanti.

Cosa ha fatto la Germania?



Ha fatto una politica assolutamente standard di dumping salariale, esattamente quella che, ironia della sorte, rimproveriamo alla Cina, dove però i salari crescono e la povertà cala. I paesi del Nord ci danno la colpa della crisi perché non avremmo fatto le riforme strutturali. Cosa sono le riforme strutturali? Sono pagare un po' meno i lavoratori. La Germania ha cominciato a farlo nel 2002. In nero vedete la quota salari in Germania dal 2002 al 2007, e il suo crollo dopo le cosiddette riforme Hartz, un tipo che pare avesse abitudini abbastanza simili a quelle di Berlusconi (ma questo è un altro discorso, non voglio entrare nei pettegolezzi). La discesa dei salari è impressionante, e ha reso possibile un aumento di competitività proprio perché il tasso di cambio coi principali partner era fisso (ne riparlerò dopo).

Ma questa politica dei redditi slealmente competitiva ha costi sociali nascosti.


Osservate l’andamento della disuguaglianza del reddito in Germania: vedete quanto è aumentata rapidamente dopo l'approvazione delle cosiddette riforme strutturali? La Germania è il paese della zona euro dove le diseguaglianze sono cresciute di più in questo periodo: la povertà cresce, cresce il divario fra Est e Ovest, e quello tra lavoratori strutturati e lavoratori precari o con contratti atipici.

Due condizioni sono necessarie per superare la crisi.

Primo, armonizzare i mercati del lavoro dei paesi membri, riportando i salari reali in linea con la produttività del lavoro ovunque nella zona euro, perché se un paese fa il giochetto sporco della Germania comprimendo le dinamiche dei salari reali al di sotto della dinamica della produttività alla fine saltiamo tutti. Dobbiamo regolamentare nuovamente i mercati finanziari europei, e naturalmente dobbiamo smantellare l'euro, e dobbiamo farlo ora, sia per motivi di breve termine che per motivi di lungo termine. Analizziamo questi punti. 

 (Fonte: Reinhart, C., Sbrancia, B., 2011, "The liquidation of government debt", BIS Working Papers, N. 363).

Andate a vedere la linea rossa, che descrive un secolo di debito pubblico nei paesi avanzati. Abbiamo due picchi evidenti, e una evidente fase di discesa ordinata. Partiamo da qui: questa fase (nel box rosso) è quella in cui come vi ho detto prima i paesi avanzati hanno liquidato l'enorme debito accumulato a causa del secondo conflitto mondiale. È un periodo che va diciamo dal 1946 fino al 1971. Guardate la situazione attuale: c’è stato un aumento improvviso del debito pubblico, dovuto al bisogno di salvare la finanza privata, che ha imposto ai governi uno sforzo enorme, che si è tradotto in un massiccio e improvviso accumulo di debito pubblico. Per quanto riguarda il debito pubblico, la situazione attuale è molto simile a quella vissuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Veniamo da trent'anni di guerra del capitale contro il lavoro. Cos’è successo a quel tempo, cosa è stato fatto dai governi dopo la Seconda guerra mondiale?

Due cose. La prima l'abbiamo già vista in precedenza: questo è il periodo in cui i salari reali sono cresciuti in linea con la produttività, quindi c'è stata una equa distribuzione del reddito. La seconda è che abbiamo regolamentato i mercati finanziari. Consideriamo questo punto. La liquidazione dell'enorme debito dopo la Seconda guerra mondiale è stato resa possibile da due cose: intanto, da quello che gli economisti chiamano "repressione finanziaria" (io la chiamerei piuttosto "regolamentazione finanziaria"). Carmen Reinhart e  Belen Sbrancia hanno analizzato questo processo storico nel loro paper del 2011. La seconda cosa che ha facilitato il rientro del debito è stata l'equa distribuzione del reddito: il capitalismo funzionava come afferma (o pretende) di funzionare, cioè pagando i fattori della produzione in funzione della produttività. Ciò ha favorito la crescita e ha evitato l’accumularsi di ulteriori debiti per assorbire la produzione, rendendo possibile il rientro dai debiti pregressi, perché qualsiasi problema di debito è sempre un problema di crescita del reddito.

Cosa vuol dire repressione finanziaria? Dovremmo reintrodurre per esempio qualche forma di regolamento, di norma Glass–Steagall, cioè separare le banche commerciali dalle banche d'investimento, perché il modello tedesco di banca universale non ha funzionato. Dovremmo riconsiderare la posizione delle banche centrali. L'indipendenza della banca centrale è stata additata come una minaccia alla democrazia da economisti come Josef Stiglitz o Axel Lejonhufvud (che è meno noto al grande pubblico, ma è comunque un economista keynesiano molto importante).

Cosa vuol dire adeguata distribuzione dei redditi? Ci sono diverse proposte: ne prendo una di un economista tedesco, per mostrarvi che i tedeschi non sono i miei nemici, sono amici, perché viviamo nello stesso mondo e viviamo in questo mondo per un periodo molto breve: la vita è breve e non val la pena di viverla male quando abbiamo i mezzi tecnici per vivere molto meglio. Un'equa distribuzione del reddito vuol dire che il salario nominale contrattuale dovrebbe aumentare al tasso della crescita della produttività aumentato dall'obiettivo d'inflazione (se decidiamo di conservare un obiettivo d’inflazione comune fra paesi europei).

Questo significa equa distribuzione del reddito: che chi produce sia remunerato in proporzione al proprio contributo.

L'euro è un morto che cammina. Avete notato la dichiarazione di Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, quando ha detto che il prossimo stress test del settore bancario sarà eseguito considerando diversi coefficienti di rischio per i titoli sovrani? Capite cosa vuol dire? Vuol dire che il "whatever it takes", il "faremo qualsiasi cosa" di Draghi, era un bluff, perché se avesse ragione Draghi i titoli pubblici avrebbero rischio zero. Questo significa che in Germania qualcuno è stufo di questa situazione e vuole smantellare l'euro. Le dichiarazioni di Hans-Werner Sinn, sul fatto che Berlusconi sia stato messo da parte perché stava preparando l'uscita dall'euro dell'Italia dice molto: Sinn ha sempre detto che i paesi del Sud dovrebbero uscire dall’euro (e lui è un economista tedesco), e se è lui che fa questa affermazione, si tratta di un segnale politico molto importante. Le opinioni dei nostri Letta, Renzi, Napolitano, e dei loro bardi, sono irrilevanti.

I motivi di breve periodo per smantellare l'euro sono ovvi: la flessibilità del cambio consentirebbe un riequilibrio simmetrico degli enormi squilibri accumulati durante il periodo dell'euro. Ci sono però anche motivi di lungo periodo. Per integrare le rispettive economie i paesi europei non possono rinunciare a due caratteristiche dei tassi flessibili. La prima è la funzione di segnalazione (signaling): il tasso flessibile dà un segnale rapido e chiaro al mercato se c'è qualcosa che sta andando storto in un paese. La seconda è la funzione di adempimento degli accordi: questa funzione è stata evidenziata nel 1957 da James Meade, venti anni prima di vincere il Nobel (nel 1977). Si tratta, ve lo sottolineo, di un economista illustre, che poi è stato dimenticato, ingiustamente, perché molto attuale, e nel mio libro concludo la mia proposta di politica economica utilizzando appunto un articolo che lui scrisse nell'anno in cui sono stati firmati i Trattati di Roma (1957).

Meade dice che se un governo europeo vuole utilizzare politiche monetarie o di bilancio in modo non cooperativo, a esclusivo fine di stabilizzazione interna, se per esempio, usando le sue parole “nella presente situazione di surplus delle partite correnti le autorità tedesche dovessero usare la politica monetaria per contenere l’inflazione... bisognerà fare maggior ricorso all’arma della variazione del cambio”. La flessibilità del tasso di cambio è un'arma difensiva contro il comportamento non  cooperativo di altri stati membri di un’Unione Economica e Monetaria, ed è l’arma più efficace, perché di fronte a politiche di dumping sociale così forti come quelle praticate dalla Germania il tasso nominale tedesco si sarebbe apprezzato. Sarebbe andata così: “Cari tedeschi, va bene, siete bravi, avete fatto le riforme senza aspettarci, che bello! Così facendo oggi violereste l'art. 5 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, ma che gli fa, siamo amici, va bene così. Ora i vostri prodotti costano di meno, fantastico! Ci piacciono molto, benissimo! Siete un paese in surplus, che bello, vi facciamo anche un applauso...” Ma se dieci anni or sono per comprare i prodotti tedeschi avessimo dovuto comprare la valuta tedesca, questa, essendo molto richiesta, si sarebbe apprezzata, e così alla Germania non sarebbe servito a molto schiacciare i salari dei propri lavoratori!

Noi viviamo in un sistema sovietico dove abbiamo pianificato il prezzo più importante per un paese, il prezzo della sua valuta.

Un’ultima osservazione.

Cosa dovreste fare, in qualità di deputati europei? Visto che difendendo l'euro a tutti i costi la Commissione sta distruggendo, con politiche di austerità rese necessarie dall'euro, le prospettive di sopravvivenza dell'unione europea, perché questo è quello che sta succedendo, allora voi deputati dovreste utilizzare il vostro potere di sfiduciare la Commissione Europea e costringerla a dimettersi. Perché la Commissione sta distruggendo l'Europa, e questo non è quello che ci si aspetta da lei. Forse non avete i numeri per farlo ora, ma dopo le prossime elezioni le cose potrebbero cambiare, come avevo previsto ormai due anni fa, e se non segnalate il vostro dissenso verso questa situazione assumete un rischio politico e probabilmente dovrete anche pagare un costo politico.

State attenti, e buona fortuna!





(avviso ai sognatori: potete anche far finta di non capire le parole in rosso. Fatti vostri. Quando vi inseguiranno coi forconi io, pur deprecando un simile comportamento inumano ed inelegante, non piangerò, perché mi avete veramente rotto i coglioni. Econ102 l'abbiamo fatta tutti, e voi spesso in università più prestigiose della Sapienza, dove l'ho fatta io. Quindi potete prendere in giro chi vi pare, ma non me, e fra un po' nemmeno tanti altri. Dite la verità, cazzo, ditela! Avete poco tempo, lo capite o no? Jens è vivo e lotta insieme a noi...)

Frenkel goes to Latvia

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Mi chiameranno fra un'oretta per chiedermi chennepenZo dell'entrata nell'euro della Lettonia. Poi leggerete l'intervista sul Sussidiario.net, credo.

E cosa devo pensarne?

Io non penso. Leggo i dati.

La storia della Lettonia è abbastanza nota nei suoi lineamenti essenziali. I motivi che possono spingere un popolo già conculcato dall'impero sovietico ad affrancarsene a qualunque costo sono anche intuibili. Se poi sia una buona idea passare da un padrone all'altro, questo lo dirà la SStoria: noi non possiamo fare altro che augurar loro buona fortuna, e lo facciamo sinceramente. D'altra parte, com'è noto, la Lettonia passa per essere un esempio fortunato di "svalutazione interna". Ho citato più volte lo studio di Mark Weisbrot e Rebecca Ray (2011) che chiarisce come questa opinione sia lievemente imprecisa, ma vale la pena di fare un ripassino aspettando la telefonata del cordiale giornalista.

Intanto, ricordiamoci che con la crisi del 2008 la Lettonia prese una legnata di proporzioni bibliche. Il suo tasso di crescita passò da uno strepitoso 9.6% nel 2007, a un preoccupante -3.2% nel 2008, a un catastrofico -17.7% nel 2009, come potete vedere qui:


Questi dati, come i successivi, vengono dall'ultima edizione del WEO e i valori successivi al 2012 sono previsioni (come sempre rosee) del fondo.

La storia la sapete. Quando un paese periferico cresce in modo così folgorante, cosa significa? Significa che, come nel romanzo di centro e di periferia, il paese è drogato dai capitali esteri. Ce lo dicono i nostri amici saldi settoriali, quelli che abbiamo spiegato qui e qui e qui e da tante altre parti:


Come da copione, prima del boato i conti pubblici erano relativamente a posto (la differenza fra entrate pubbliche e uscite pubbliche, T-G, in blu nel grafico, era praticamente nulla, cioè il bilancio era in pareggio), ma il settore privato stava spendendo molto più di quanto guadagnasse e quindi aveva un risparmio netto (dedotti gli investimenti) fortemente negativo (la linea S-I, in verde nel grafico, era in caduta libera). Come faceva il settore privato a spendere più di quanto guadagnasse? Ma è semplice! Con i soldi degli altri! Gli afflussi di capitali esteri (in rosso nel grafico) andavano crescendo, fino a superare addirittura il 20% del Pil.

Tenete presente che il noto studio di Manasse e Roubini (2005) indica una soglia di attenzione per l'indebitamento estero (cioè per gli afflussi di capitali esteri) intorno al 4.6% del Pil (questo è il valore medio dell'indebitamento estero nell'anno che precede una crisi debitoria nel campione da loro analizzato), e che oggi (a buoi scappati) la Procedura per gli squilibri macroeconomici della Commissione Europea prevede una soglia di attenzione del 4% (in media mobile sugli ultimi tre anni). Sono cose che sapete. Gli squilibri della Lettonia erano evidentissimi: quattro o cinque volte oltre la soglia di attenzione, e questo spiega perché il suo tonfo è stato così fragoroso.

Notate bene!

La Lettonia era inserita dal 2004 nel meccanismo di cambio ERM II, la versione "attenuata" dello Sme alla quale devono aderire i paesi che intendano entrare nell'euro. Attenuata nel senso che le bande di oscillazione attorno alla parità dichiarata rispetto all'euro sono quelle piuttosto lasche che lo SME adottò dopo la crisi del 1992: più o meno 15% rispetto alla parità centrale dichiarata rispetto all'euro, che per il lat lettone è di 0.70 lat per un euro (più o meno). Ma la scelta fu di non utilizzare nemmeno questa discrezionalità e di restare aderenti alla parità dichiarata, come vedete qui:


Nessuna svalutazione esterna, quindi, quella che per i fessi è nemica del lavoratore. E allora? E allora svalutazione interna. I lavoratori stettero bene? Ovviamente no, altrimenti i fessi non sarebbero tali! Come si fa per riequilibrare la competitività se il cambio non può aggiustarsi, cioè se impediamo al mercato valutario di far scendere il prezzo di una moneta nel momento in cui questa è meno domandata? Semplice: si fanno scendere i prezzi interni, e per questo c'è solo un metodo: la disoccupazione.


Eccola qui, la svalutazione interna, in tutto il suo splendore! Fra il 2007 e il 2010 la disoccupazione sale dal 6.8% al 18.6%, mentre l'inflazione scende dal 10% al -1.2%. Ah, ma naturalmente la curva di Phillips non esiste, certo, come sostenevano gli anatroccoli (ve li ricordate? Che fine hanno fatto?) È successo per caso, come è un caso che Monti abbia candidamente ammesso che per rendere l'Italia competitiva lui abbia distrutto la domanda interna (creando ovviamente disoccupazione).

Ah, ma poi, certo, le cose andranno a posto. Nelle rosee previsioni dell'IMF la disoccupazione sarà sopra al 10% fino al 2015! Vedremo...

Ma come stanno oggi i lettoni, a tre anni dalla svalutazione interna? Be', si può andare a vedere il loro reddito pro capite, ad esempio. Cosa sia successo al nostro, ultimamente, lo abbiamo visto qui. E a loro com'è andata? Così:


Nel 2013, se le previsioni rosee del fondo si realizzeranno, saranno tornati al livello di reddito pro capite del 2007, e quindi avranno perso solo sei anni. Molti meno di noi.

Ma attenzione, c'è un trucco! E qual è? Ma è semplice! Il reddito pro capite sta aumentando, e la disoccupazione diminuendo, in modo relativamente rapido, per un motivo molto semplice! Questo:


Ovvero: il reddito totale (in miliardi, scala di sinistra) è aumentato, ma la popolazione (in milioni, scala di destra) è diminuita. Esempio (a spanna): fra il 2009 e il 2011 il reddito è aumentato del 4%, la popolazione diminuita del 4%, quindi il reddito pro capite è aumentato dell'8%.

Disoccupazione a due cifre più esodo: i simpatici costi collaterali della svalutazione interna.

Che poi quando succedono cose come queste uno magari non ci pensa. Voi direte: ma che c'entra? Quelli erano lituani. Eh, sì, ma anche la Lituania sta nell'ERM II. Il disegnino, però, ve lo faccio un altro giorno, o magari ve lo fate da voi. Il punto però qual è? Che chi adotta la svalutazione esterna ridiventa esportatore netto di beni, e chi adotta la svalutazione interna rischia di diventare esportatore netto di seccature.

Provare per credere...

Ah, naturalmente se (il settore privato di) un paese si indebita (con l'estero) al ritmo di un quinto del suo Pil all'anno, poi succede questo:


La posizione netta sull'estero della Lettonia (cioè la differenza fra i crediti dei lettoni verso l'estero, e i debiti dei lettoni con l'estero), già fortemente negativa, a partire dall'ingresso nell'ERM II (cioè da quando i creditori potevano stare tranquilli, perché il cambio era fisso) è peggiorata di 30 punti di Pil (dicesi trenta) fino al 2009, e i sacrifici che avete visto sopra sono riusciti (nel solito modo, diminuendo le importazioni) a riportarla in due anni, nel 2011, al livello già catastrofico di cinque anni prima.

Ma quanto potrà far comodo a un paese così indebitato adottare una valuta così forte?

Be', non saprei dirvelo. Ma certamente molto meno che ai suoi creditori. O almeno, così la pensano loro, perché poi quando il banco salta, non ce n'è più per nessuno. E questo, vi assicuro, la Merkel non lo capisce, ma Weidmann sì.

Buon divertimento e buona fortuna!


Mi faccio un altro regalo

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(scusate, ogni tanto sento il bisogno di farmi un regalo...)

Da Giuseppe Liturri ricevo e volentieri pubblico:

Questo post è una pietra miliare. Nel senso stretto del termine. Quelle che incontri lungo la strada e ti indicano quanta strada hai fatto e quanta ne resta da fare. Mi fa tornare indietro con il pensiero alla fine del 2012 quando trovai su twitter un certo Alberto Bagnai che diceva di aver appena pubblicato un libro sull'euro e parlava dei difetti e dei danni di questo mostro giuridico ed economico. Avevo pur sempre scritto sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 17 luglio 2012 "non ci resta che tornare alle monete nazionali", un pezzo di 3000 battute pubblicato in bella evidenza che mi aveva già fatto litigare con alcuni membri delle elites. Temendo di non trovarlo a Bari (egli stesso segnalava problemi nella distribuzione), lo comprai a Roma (non ci ero andato apposta! Ero là per lavoro). Dopo aver letto le prime pagine, per non farmi mancare nulla, lo ricomprai in formato e-pub per tenerlo sempre "a tiro" su PC di studio ed Ipad. Lo lessi avidamente. Alcuni passaggi anche più e più volte a distanza di mesi. Poi trovai anche il modo di litigare su twitter con il suo autore, andandomela a cercare (a proposito sono ancora bloccato!). Ero in effetti convinto che fosse stata data troppa enfasi al cambio come leva per la competitività, e cercavo di sottolineare anche l'importanza di fattori come innovazione, ricerca... insomma tutto quanto mi avevano insegnato all'Università, ed avevo poi messo in pratica in quasi 20 anni di attività professionale e di manager d'impresa. Purtroppo per me e per tutti gli imprenditori italiani, tutto lo strumentario classico delle strategie competitive d'impresa, nulla poteva contro il macigno macroeconomico che era stato piazzato sulla nostra strada già a partire dal '96 e, solo formalmente, dal gennaio 1999. Me ne accorsi ben presto, girando per le aziende e osservando gioielli della tecnologia costretti a correre sulla sabbia, quando avrebbero potuto mostrare tassi di crescita a doppia cifra o, cosa più grave e drammatica, osservando piccoli imprenditori che, in effetti, non erano proprio "Steve Jobs", chiudere in tre mesi e mandare a casa decine di persone. Come San Tommaso, ebbi bisogno di toccare per credere al disastro ed averne chiare le cause. Ma non mi bastava. Continuavo a divorare pubblicazioni sull'argomento, leggendo di tutto e poi scartando progressivamente discorsi degni da "bar dello sport". L'estate 2013 ha segnato il completamento. Passaggio rapido in libreria ed acquisto di: 1) Seminerio, La cura letale. 2) Krugman, Fuori da questa crisi adesso. 3) Bisin, Favole e numeri. 4) Thilo Sarrazin, L'Europa non ha bisogno dell'euro. Facevo particolare "affidamento" su Bisin. Già il titolo prometteva bene. Letto in pochissimo tempo e portatore di una delusione totale. Dopo diversi mesi, continuo ancora a chiedermi cosa volesse dire. Pochissimi cenni al tema centrale (euro disfunzionale) agli squilibri connessi ed al modo credibile e sostenibile di riequilibrarli. Il vuoto pneumatico. La sorpresa più grande ed i ragionamenti meglio argomentati, serrati, rigorosi sono stati quelli del libro del tedesco. Si, avete capito bene. E' stato sorprendente leggere, da una visuale completamente diversa, (ex membro del board della Bundesbank) che questo euro non può stare in piedi e crea solo squilibri che si ritorceranno anche a danno dei tedeschi stessi. Fantastico. Sembrava la quadratura del cerchio. Contributi molto interessanti sono anche venuti da Seminerio e da Krugman (beh, era il minimo!). Ma alla fine, dovevo ammettere che la lucidità ed il rigore scientifico con cui Alberto Bagnai aveva "unito i puntini" già a fine 2011 ed a fine 2012 con il libro, erano un passaggio imprescindibile ed un lavoro eccezionale. Leggere, studiare, comprendere, riprendere qualche manuale di Macro (il Dornbusch-Fisher!), tutto questo costa fatica e rinunce, ma un tema che riguarda il futuro nostro e, soprattutto, dei nostri figli richiedeva tutto questo per poterlo comprendere e parlarne con cognizione di causa. Queste letture mi hanno anche fatto comprendere Bagnai quando si "indispone" in presenza di "esperti" che parlano davvero per sentito dire, da orecchianti, su questi temi. Sono solidale con lui: uno passa le nottate a studiare e poi deve sentirsi dire "laqualunque" dal primo ingegnere che ha letto Repubblica! Eh no!

E siamo a dicembre 2013. Le posizioni si stanno definendo, il governo Alfetta continua a mettere il cacciavite nel posto sbagliato (...), i salti della quaglia non mancano, i tedeschi hanno detto chiaro e tondo (vedi il programma di Grosse Koalition e l'ultima intervista di Weidmann alla Bild) che non arretrano di un millimetro. Rivogliono indietro tutti i loro crediti e che i debitori sputino sangue per rimborsarli. Esattamente il punto di non ritorno su cui collasserà tutto. Mi fa solo molto male vedere lo sguardo perso nel vuoto dei lavoratori che incontro ogni giorno nelle aziende. Mi guardano speranzosi che si riesca a fare qualcosa per salvarli dal loro destino ormai segnato. Ecco, quegli sguardi non riesco a dimenticarli. Ed è forse per questo che l'impegno a studiare ed a spiegare alla gente sarà il filo conduttore dei prossimi mesi. Studierò, parlerò, spiegherò (con maggior spazio di quello avuto su RAI2 durante Virus del 6/12) sperando che a maggio, con l'esercizio dell'unico diritto che ci è rimasto, riusciremo a portare a Strasburgo e Bruxelles uomini e donne, di qualsiasi appartenenza partitica, che pongano fine, speriamo nel modo più indolore possibile, a questa esperienza fallimentare dell'euro.

In bocca al lupo e Buon Anno a tutti!






Caro Giuseppe,

io non ho un buon carattere. Non mi pagano abbastanza per averlo. E, forse, i pochi soldi che mi danno, non me li merito nemmeno, perché spesso mi manca una delle due qualità fondamentali di un buon insegnante: la capacità di mettermi al posto del mio interlocutore, di adottare la sua prospettiva. Compenso con un eccesso dell'altra qualità fondamentale: la capacità di seduzione (in senso, beninteso, etimologico: se ducere, portare al proprio discorso).

Ora tu hai capito una cosa fondamentale e l'hai ammessa con grande onestà: per chi, provenendo da un percorso di studio e di ricerca assolutamente standard, ha ben presente la semplice natura macroeconomica del problema, così terribilmente evidente, così crudelmente banale, in effetti è facile indisporsi quando, come dire, alla visione dell'albero viene contrapposta quella delle foglie.

In effetti, ritengo di godere di due attenuanti.

La prima è che l'ottica "micro" e "supply side"è stata la base ideologica di tanti mantra privi di senso con i quali i nostri politici traditori e corrotti si son sciacquati la bocca per anni: "innovazione", "ricerca", "produttività"... Come se tutti gli imprenditori che conosci, o che conosco, fossero dei cialtroni, e come se non esistessero precise evidenze macro dei legami fra il cambio e queste variabili! Non possiamo e non dobbiamo essere tutti Steve Jobs, così come non è richiesto a ogni musicista di essere Bach, a ogni economista di essere Smith, a ogni insegnante di essere Socrate, e, visto che stiamo parlando di esportazioni, a ogni amante di essere Rocco Siffredi (un prodotto che il resto del mondo ci invidia)! Quale liberismo è quello che impone ai propri sudditi (perché tali diventano) di essere geni superdotati o perire? E quale classe politica è quella che, dopo aver usato uno strumento di breve periodo (il cambio) per fare politiche strutturali (la politica industriale, quella dei redditi, pilotate dal cambio forte e dal vincolo esterno), in presenza di una crisi congiunturale vuole usare strumenti di lungo periodo (l'innovazione in ricerca, le riforme strutturali) per contrastare shock di breve periodo? Ovviamente non c'è logica, e l'assenza di logica si veste di mantra. Sono stato molto aggressivo con te perché mi sembravi un portatore di questi mantra, ma sbagliavo.

La seconda attenuante è che, nel difendere il punto di vista secondo me piuttosto ovvio, cioè che in una crisi economica determinata dall'adozione di un sistema monetario assurdo forse bisognerebbe prima ascoltare chi ha fatto ricerca in economia monetaria internazionale, e poi, a seguire, gli altri esperti (cominciando dagli altri economisti, ma dando forse la precedenza agli storici!), io non credo di aver mai negato la rilevanza sia teorica che politica dell'approccio microeconomico. Questo è l'unico blog di un economista nel quale agli imprenditori sia stato aperto il microfono, nel quale abbiano capito che potevano esprimersi e sia stato loro permesso di farlo (rettificherò volentieri linkando in calce altri esempi, perché a me interessa il dialogo). Mi è invece sembrato di riscontrare troppo spesso, negli interlocutori, un atteggiamento di radicale negazione dell'utilità della prospettiva macroeconomica, sostituita da luogocomunismi o mantra del tipo "facciamo poca ricerca", "fuori c'è la Cina", "siamo corrotti", e benaltrismi vari assortiti. Ed è anche per averti identificato con questo tipo di atteggiamento che sono stato molto aggressivo, ma è anche qui evidente che mi sbagliavo.

D'altra parte, quand'anche io avessi avuto ragione, cioè quand'anche tu fossi stato portatore di mantra, benaltrismi e luogocomunismi, saresti sempre stato più scusabile di quelle persone che, in nome di una ipotetica purezza marZiana, da un anno a questa parte gettano fango a palate (senza peraltro riuscire a lambire la punta del suo augusto alluce) su una persona che ha esordito chiarendo sul Manifesto che l'euro è uno strumento di lotta di classe, e mettendo gli squilibri finanziari nella loro prospettiva, quali esito di un conflitto distributivo nel quale il capitale ha preso il sopravvento perché il pendolo della politica si è spostato verso una eccessiva liberalizzazione finanziaria (per motivi che, per umiltà, lascio ai politologi - poi se qualcuno mi dice cosa siano e se li hanno trovati, questi motivi, mi fa un sincero favore). L'operazione culturale che ho condotto, quella di smontare l'economia dei "padroni" con le categorie dei "padroni", loro non sarebbero mai stati capaci di compierla, ed ha avuto successo perché è stata particolarmente distruttiva per i "padroni" (intendendo con questi la grande finanza internazionale e i suoi difensori, in Italia soprattutto di sinistra partitica), e particolarmente comprensibile per i sottoposti. Il discorso che a te piace (e ti ringrazio) mostra che i problemi nascono, come ho spiegato a Pescara, dall'ipocrisia del capitalismo, il quale dice di voler funzionare in un modo, ma poi, ovviamente, funziona in un altro. La riduzione del discorso economico a scienza naturale, l'abolizione della componente politica e storica della scienza economica, sono parte di questa ipocrisia e sono una parte che non mi appartiene. Per articolare un discorso critico comprensibile il linguaggio liturgico dei marZiani si è dimostrato inefficace. Il mio efficace. Dispiace, lo so, ma non posso farci nulla. A me piacerebbe essere più accomodante, va da sé, ma non mi si può chiedere di esserlo con cialtroni che mi insultano per motivi di tattica politica. Io, nel post che ti piace tanto, ho usato il grafico di un autore marxista: mi pare una sufficiente dimostrazione del fatto che so di avere da imparare da tutti e che accetto qualsiasi discorso serio e in buona fede (così come rifiuto il livore di chi si sente politicamente spiazzato da uno che, peraltro, ambizioni politiche non ne ha, come il sottoscritto)! Tornando al grafico, la prospettiva di Wolff è molto interessante. Se però poi leggi il suo articolo, be', trovi questa roba qui. E allora, mi spiace, ma vado avanti per la mia strada, senza negare l'utilità dei punti di vista altrui, e fregandomene del fatto che gli altri neghino l'utilità del mio.

Quindi, come dire: se anche nel tuo approccio ci fosse stata malizia, in giro per il mondo c'è di ben peggio!

Approfitto quindi del fatto che c'è il sole, e che sta per finire un anno, per chiederti scusa e per sbloccarti su Twitter.

Andiamo avanti.

Audizione informale alla Commissione Finanze: il mio discorso di fine anno

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(segue la trascrizione della mia audizione da parte della Commissione Finanze della Camera il 4 dicembre 2013. Questo è il video, che alcuni già avranno visto:




e le slide le potete scaricare qui. Dal video noterete una certa stanchezza, e ve ne ricorderete i motivi

Nella trascrizione ho fatto un moderatissimo editing, restando il più possibile aderente al tono colloquiale. Mi son tenuto gli anacoluti, ma ho aggiunto qualche link alle fonti e qualche grafico, che per rispetto del tempo degli onorevoli non avevo inserito nelle slide consegnate alla Commissione - peraltro, sono dati che a loro sono certamente noti, come ad esempio l'andamento del debito pubblico italiano.

In questa audizione ho inteso sottolineare due concetti fondamentali, facilmente desumibili dalla macroeconomia elementare:

1) le politiche di austerità sono una scelta obbligata a causa della rigidità nominale determinata dall'euro;

2) di conseguenza, l'euro è contrario alla ratio di una unione economica, perché la sua adozione costringe a politiche che, in caso di problemi, distruggono il mercato interno.

Il primo punto deriva dalla più banale logica economica: la domanda di un bene dipende dal reddito del consumatore e dal prezzo relativo. La domanda di beni esteri quindi dipende anche dal cambio, che è una componente del prezzo di questi beni. Se introduci un elemento di rigidità nel cambio, dovrai compensare con una maggiore variazione del reddito. Quando, come ora, il problema è il debito estero, la soluzione è comprare (importare) di meno dall'estero, o vendere (esportare) di più. Ma dato che il reddito del resto del mondo è esogeno (non lo controllano né Letta né Napolitano), l'unica cosa che un paese col cambio ingessato può fare per migliorare le cose nel breve periodo è agire sul reddito dei propri cittadini, forzandoli a comprare di meno. Come lo fa? Semplice: togliendogli soldi (che poi avvia, attraverso i meccanismi di stabilità tipo MES, ai creditori esteri).

Vorrei anche ricordare che la svalutazione, in un paese in deficit estero che abbia conservato la propria valuta nazionale, non è di per sé una sleale macchinazione di governanti cialtroni o di rapaci finanzieri. È la semplice e fisiologica conseguenza del fatto che se il resto del mondo per comprare i tuoi beni deve prima comprare la tua valuta nazionale, quando compra di meno i tuoi beni, allora domanda di meno anche la tua valuta, e quindi questa si deprezza fisiologicamente per la legge della domanda e dell'offerta.

È il mercato, bellezza! Se non piace basta dirlo! A me non piace tantissimo, altrimenti non insegnerei politica economica, ma distorcerlo a svantaggio del mio paese mi piace anche di meno, sai?

Eppure, chissà perché, gli spaghetti-liberisti sono tutti pro-market sfegatati, tranne quando il mercato in questione è quello delle valute. D'altra parte, ora siamo in una situazione nella quale siccome i beni di alcuni paesi dell'eurozona - tipicamente la Germania - per una serie di motivi sono molto domandati anche all'esterno dell'eurozona, questo fa apprezzare la valuta di tutti, cioè l'euro, anche quando l'apprezzamento sarebbe richiesto per aggiustare i conti di uno solo, e svantaggia gli altri paesi, che invece sono in deficit, e quindi sono vieppiù costretti a castrare il proprio reddito per evitare squilibri ormonali - pardon, strutturali - di bilancia dei pagamenti. Ovviamente questo dipende anche dal fatto che il paese in surplus è il più grosso (la Germania), e alcuni di quelli in deficit sono minuscoli (la Grecia).

Il secondo punto è meno ovvio, o se volete più originale. Pare che nessuno si sia accorto che i paesi europei sono impegnati in una politica di svalutazione interna competitiva. Con in più il dettagliuzzo, che a voi è ben noto, e che generalmente sfugge, che questa politica è la risposta a un'aggressione provieniente dai paesi forti. A differenza della svalutazione esterna (quella del cambio) la svalutazione interna, passando per l'austerità, distrugge il mercato interno, ed è quindi sostanzialmente suicida, in particolare perché annulla il beneficio di unirsi ad altri paesi per creare un grande mercato, comune o unico che sia. Una cosa talmente semplice ed evidente che chi ha gli occhi foderati di PhD non se n'era accorto, nonostante, ahimè, la logica sottostante sia stata chiaramente esposta da uno di loro, come vedrete qua sotto!

Che poi uno dovrebbe chiedersi, come si chiedeva uno di voi non ricordo se qui o su Twitter: "Chissà perché quelli che temono così tanto il currency debasement, la svalutazione della moneta, sono invece così tolleranti con il labour debasement, con la svalutazione del lavoro?" E la risposta potrebbe essere nella domanda: magari perché di currency ne hanno molta (anche e soprattutto quando sono "de sinistra") e lavorare hanno lavorato poco (anche quando sono "economisti d'area der sindacato"). Naturalmente se avete una spiegazione migliore, io son qui per accoglierla. Ognuno difenda pure i suoi interessi, ma non faccia finta di difendere quelli altrui, perché gli altrui di turno, scoperta l'impostura, potrebbero anche irritarsi, e in questo periodo molti hanno i nervi a fior di pelle...

I due punti sottolineati qua sopra li avevo esposti alla conferenza di Pescara, della quale devo ancora terminare di pubblicare i lavori, e ribaditi nel mio incontro con l'IDV, poi ancora al Parlamento Europeo, e poi nuovamente al convegno di Roma, al quale era presente anche Jacques Sapir, che a sua volta ha ripreso questi semplici argomenti - il secondo dei quali pare fosse finora sfuggito a tante menti eccelse! - in un suo post. Gli altri colleghi del Manifesto di Solidarietà Europea mi hanno altresì onorato accogliendo questo semplice, ma basilare, concetto in una dichiarazione congiunta che spero di potervi presto proporre.

Vorrei anche sottolineare il perché intendo che questo sia il discorso che chiude un anno, e ne apre un altro, nel quale auspico si possa condurre un dibattito che abbia un senso, e che si liberi, magari non immediatamente, ma rapidamente, dalle ipocrisie che ci hanno finora impedito di procedere speditamente nell'elaborazione di una coscienza critica (soprattutto a sinistra). Il motivo è molto semplice: nell'audizione ho cercato di essere il più chiaro possibile, e a grandi linee credo di esserci riuscito, per cui d'ora in avanti i colleghi per i quali "l'austerità è di destra ma l'euro di sinistra" - o anche semplicemente chi si sciacqua la bocca con la parola austerità ma non pronuncia la parola euro perché "mamma non vuole e De Cecco nemmeno" - dovranno argomentare punto per punto, chiarendo - in particolare - come sarebbe possibile secondo loro fare politiche espansive di qualunque tipo (fiscale, monetario) e a qualsiasi livello (nazionale, sovranazionale) in presenza di cambi rigidi senza aggravare il deficit estero dei paesi più deboli, oppure faranno meglio a cambiar disco, scegliendone uno meno rotto. 

Questo, ovviamente, escludendo l'unica soluzione che avrebbe un senso: che queste politiche siano fatte a livello nazionale dai paesi più forti, richiesta oggetto di infiniti "accorati appelli".

Ma gli accorati appelli si qualificano ormai per quello che sono: un maldestro tentativo di cadere in piedi in ogni possibile scenario, dandosi una sverniciatina di sinistra (quanto è cattiva l'austerità signora mia! Quanto è buono lo Stato!), ma guardandosi bene anche solo dal nominare lo strumento principe della mobilità, e quindi della capacità offensiva, del capitale nell'Eurozona: l'euro, appunto. Euro che, vorrei ricordare agli stimati colleghi, non è stato fatto per permettere ai piddini antropologici di viaggiare senza portarsi dietro la calcolatrice. No. Questo possono crederlo loro, che nella propria sterminata presunzione di sapere ritengono di essere il centro del mondo e delle relative scelte di politica economica! L'euro è stato fatto perché chi intendeva prestare dissennatamente non dovesse correre alcun rischio, o meglio, lo trasferisse sui contribuenti dei paesi politicamente deboli. È stato fatto, insomma, per dare al capitalismo più rapace un ulteriore vantaggio nella sua lotta contro il lavoro. È l'integrazione finanziaria, bellezza!

L'euro è l'integrazione finanziaria, e l'integrazione finanziaria è la disintegrazione del lavoro.

Perfino l'onorevole Fassina - che per molti di voi, in camera caritatis, è un servo sciocco del capitale - lo ha ammesso, e addirittura a Servizio Pubblico: il problema nasce a causa dell'eccessiva mobilità dei capitali! Vi siete fatti sorpassare a sinistra da Fassina! Certo, per voi deve essere un bello smacco, voi che siete "critici"!

Lo vedete il disegnino?


Da quando si schiaccia l'elettrosalariogramma? Dall'inizio degli anni '80, dalla fine dell'epoca della repressione finanziaria, cioè dall'inizio della progressiva, inarrestabile e finora incontrollata deregulation dei mercati finanziari. La coperta è sempre quella, e se la tiri dalla parte del capitale, permettendogli di fare il porco del comodo suo (che è quello che voi volete, difendendo l'euro), necessariamente il lavoro prenderà freddo (che è quello che fate finta di non volere): il sistema diventerà instabile, e il capitale trionfante condurrà l'economia verso una colossale crisi debitoria, per i semplici e ovvi motivi che ho spiegato al Parlamento Europeo.

(ah, già, ma lì non dovevo andarci, perché mi avevano invitato i conservatori! Eh, capisco...)

Quelli che vogliono l'euro ma anche la Tobin tax, poi, mi fanno veramente pena, e forse anche un po' ribrezzo, perché ci dovrà pure essere un limite a quanto uno può essere baggiano, no? Come dire: "Caro capitalista, vieni, facciamo la lotta di classe! Io ho una fionda, a te regalo un mitra, ma ti tolgo lo 0.01% di pallottole dal caricatore pieno!" Del resto, questi geni dell'arte della guerra, questi incorrotti difensori della vedova e dell'orfano, sono anche quelli che volevano l'euro ma non volevano Marchionne, ricordate?

Questa è l'idea "di sinistra", l'idea"foriera di pace" che state difendendo! Ascoltate Panagiotis, e chiedete scusa ai greci! Ascoltate Alberto e chiedete scusa agli spagnoli! Certo, con gli italiani non vi potete scusare, me ne rendo conto: sarebbe nazionalismo, Dio ne guardi!

Mi è doloroso rimarcarlo: nonostante ci siano più le mezze stagioni, ci sono troppi mezzi economisti per tutte le stagioni. Chi nega la catena causale che lega la presenza dell'euro alla necessità di fare politiche autodistruttive sta semplicemente difendendo il regime eurista. Ovviamente, la sua scelta è lecita, come ogni scelta politica. Le mia pacate parole non intendono certo contestare la legittimità di questa scelta, come di qualsiasi altra scelta politica, non sia mai! Fra l'altro, non è nemmeno detto che questa scelta sia "di destra" in senso partitico, visto che in Italia, per motivi sui quali ci sarebbe da dire molto, uno dei baluardi dell'eurismo è proprio il sindacato. Questo concorre a spiegare perché sia la sinistra partitica a difendere a spada tratta, anche se ormai da sola, l'euro. Le mie pacate parole intendevano rimarcare un altro punto: non è lecito camuffare una simile scelta da atteggiamento "progressista", quando è evidente che essa conculca i diritti dei lavoratori, e più in generale dei "piccoli" - partite Iva loro malgrado, piccoli commercianti,  piccoli imprenditori, artigiani, ecc. - né proporla come verità "tecnica", quando qualsiasi Econ102 basta a smentirla, come vedrete qua sotto, e nel successivo post dedicato al dibattito sul mio intervento. Ma tanto, ormai, queste pezze rosse son cucite col filo nero: non attacca più, colleghi! Dite la verità, dopo vi sentirete meglio...)










Ringrazio il presidente e ringrazio la Commissione per aver ritenuto di coinvolgermi in questa iniziativa. Una sola rettifica per dovere di cronaca: io in realtà insegno Politica economica, presso l’Università Gabriele D’Annunzio e ho seguito un percorso di ricerca che mi ha portato ad occuparmi, nel corso della mia carriera accademica, della sostenibilità degli squilibri di bilancia dei pagamenti e degli squilibri fiscali nei paesi in via di sviluppo, e anche, ultimamente, nell'Eurozona.

Penso che nella mia qualità di esponente del mondo accademico il mio ruolo in questa sede istituzionale sia quello di fornire ai decisori politici alcuni elementi di giudizio che provengono dalla letteratura economica, alcuni dati di fatto che consentano loro di orientarsi nel quadro che abbiamo davanti, nel grande quadro, perché suppongo, e sono anzi certo, consapevole, con grande umiltà, del fatto che su tutta una serie di snodi tecnici, legislativi, ecc., riguardanti gli aspetti della gestione della politica tributaria ognuno di voi è molto più competente di me.

Io vorrei insistere in particolare su tre punti:

1) vorrei evidenziare la relazione che esiste fra l'euro e la necessità di orientare la politica tributaria e quella fiscale nel senso dell'austerità;

2) vorrei anche evidenziare, in senso più ampio, il rapporto che c'è fra l'adozione dell'euro e le logiche che dovrebbero guidare un’unione economica, per vedere se il meccanismo monetario attuale siacompatibile in effetti con la logica di un’unione economica;

3) vorrei anche rapidamente attirare la vostra attenzione, senza fare una lezioncina ma semplicemente fornendo alcuni elementi critici, su quello che gli studi scientifici più recenti ci dicono del rapporto fra il vincolo esterno, inteso come adozione di un cambio forte o di una valuta forte, e gli incentivi che i paesi forti e deboli di un’unione economica hanno a compiere le necessarie riforme strutturali.

Vorrei partire da un presupposto che credo sia condiviso da chiunque in questa commissione, come in tutto il paese, cioè che l’Italia, come tanti altri paesi del resto, è un paese intrinsecamente perfettibile, che ha bisogno di riforme. Il problema è capire se legarsi a paesi più forti di noi attraverso uno strumento monetario e attraverso regole fiscali di un certo tipo sia la migliore strada per compiere queste riforme. Tutto qui.


L'austerità c'è perché c'è l'euro

Circa le prospettive della politica tributaria nel quadro dell'euro quello che mi sento di poter dire è che gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci anni, e il comportamento dei partner europei (cosa importante perché qui ci stiamo interrogando su cosa si possa fare alla luce della presidenza italiana dell’Unione, quindi ci siamo ci stiamo interrogando implicitamente sui rapporti con i nostri partner europei), bene: alla luce di questi squilibri e dei nostri rapporti coi partner europei, nel quadro dell’euro la politica tributaria in Italia può operare solo nel senso dell’austerità.

La cosa interessante è che la politica di austerità è stata al contempo efficace ed inefficace.

È stata inefficace rispetto agli obiettivi dichiarati ex ante,che erano quelli di risanare le finanze pubbliche, e rispetto a queste abbiamo visto che è stata un totale disastro, perché il debito pubblico è schizzato a livelli che non sperimentavamo più dall’inizio degli anni ’90.



È stata però efficace rispetto all'obiettivo vero, dichiarato ex post,ovvero quello di aggiustare i conti con l'estero.

Per capire cosa intendo, vorrei ricordarvi quella che è la visione ormai ampiamente condivisa, sia nella letteratura scientifica che nelle sedi istituzionali, circa la vera natura della crisi economica in atto, e per questo vi vorrei citare le frasi con le quali il vicepresidente della Bce Vitor Constâncio, il 23 maggio del2013, ad Atene, ha descritto la crisi che stiamo vivendo, dicendo che “gli squilibri che stiamo subendo hanno tratto origine fondamentalmente da una spesa crescente del settore privato... che è stata finanziata dal settore bancario dei paesi e creditori... il mercato finanziario europeo non si è comportato come la teoria prevedeva che si comportasse...” (la teoria, evidentemente, sposata dal presidente Constâncio), “l’esposizione dei paesi creditori verso i paesi in crisi si è quintuplicata... questo ha portato i paesi in crisi a perdere competitività”.

La mia sintesi è che il presidente Constâncio sta dicendo che la crisi è stata determinata dal fatto che le economie periferiche sono state drogate dalla possibilità di indebitarsi con l'estero a tassi agevolati, e in particolare di indebitarsi con i paesi del centro dell'Eurozona, del core,diciamo con la Germania. In tutto questo il settore pubblico c'entra poco: la crisi è stata un colossale fallimento della finanza privata.

Se vedete la quinta slide della prima pagina, c'è un semplice indicatore che ci fa capire che la nostra crisi non è una crisi debito pubblico ma di debito privato:



(immagine tratta dal primo post di questo blog).

Per ogni paese abbiamo due barre: quella blu misura l'incremento del debito pubblico, quella rossa l'incremento del debito estero, nel periodo di gestazione della crisi. Si vede che in paesi come l'Irlanda, l’Italia, la Spagna il debito pubblico è addirittura diminuito, in paesi come la Grecia dal 2000 al 2007 il debito pubblico è rimasto pressoché stabile, quello che è aumentato ovunque è il debito estero, il che significa che sono stati i settori privati di questi paesi, cioè le famiglie e le imprese ad indebitarsi con creditori esteri, e questa peraltro è la causa dell'attuale crisi del sistema bancario.

Qual è la relazione tra austerità e conti esteri? La descrive questo schema:



Si tratta di una relazione estremamente semplice: se taglio la spesa pubblica, o alzo le imposte, di fatto diminuisco i redditi disponibili dei privati. Ciò determina due effetti benefici sui conti esteri, ma dolorosi per l'economia. Se diminuisco i redditi privati riduco i consumi e quindi riduco le importazioni e migliorano i conti esteri. Al tempo stesso creo disoccupazione, è triste ma è così, riesco a imporre flessibilità a dei lavoratori che pur di rientrare nel mercato del lavoro accettano condizioni contrattuali meno favorevoli, e in questo modo modero i salari (è quella che si chiama "svalutazione interna"), e per questa via aumento le esportazioni. Quindi, se ci fate caso, l'austerità ha due effetti positivi sui conti esteri: aumenta (un po’ più lentamente) le esportazioni e diminuisce (immediatamente) le importazioni.

Viceversa, per quel che riguarda i conti pubblici, non ci dobbiamo aspettare che l’austerità abbia effetti necessariamente positivi, e il motivo è esposto in questo schema:


Se io taglio la spesa pubblica o alzo le imposte, evidentemente migliora il saldo di bilancio, e questo è un effetto positivo. Il fatto è che però, in questo caso, il secondo effetto è negativo e annulla i benefici del primo, perché se taglio la spesa pubblica taglio comunque redditi, domanda interna, riduco gli imponibili, quindi riduco il gettito fiscale. Il saldo di bilancio, che è migliorato perché ho ridotto le spese, poi peggiora perché diminuiscono le entrate. I due effetti si compensano almeno in parte, il deficit pubblico migliora di poco, il debito continua a crescere, ma siccome abbiamo abbattuto il Pil, il rapporto debito-Pil esplode, che è quanto abbiamo visto nella prima immagine.

Osservate la seconda slide della seconda pagina:


Si vede benissimo che dal 2011, cioè dall’avvento del governo Monti e dall'inizio dell'austerità, in effetti, mentre il saldo di bilancio pubblico è passato da -3.6 a -3.2 punti di Pil, con un miglioramento 0.4 punti di Pil, il saldo estero è passato da - 3 a zero con un miglioramento di 3 punti di Pil. In altre parole, nonostante la professione economica sia tanto disprezzata, i dati si sono conformati esattamente a quello che la professione economica prevede, cioè che una politica di austerità abbia effetti immediati ed efficaci sul saldo estero, ed effetti molto meno efficaci sul saldo pubblico.

D'altra parte che il reale obiettivo di queste politiche fosse quello di, come dire, venire incontro ai creditori esteri più che alle esigenze del paese, riducendo l'indebitamento dell'Italia verso l'estero, in una situazione nella quale il debito pubblico, come abbiamo visto, stava già diminuendo, lo anche detto in termini abbastanza espliciti il presidente Monti, intervistato da Fareed Zakaria alla CNN il 18 maggio 2012, quando ha dichiarato che l'Italia stava guadagnando posizioni migliori in termini di competitività a causa delle riforme strutturali, che avevano permesso di “distruggere la domanda interna” (letterale) attraverso l'austerità (fiscal consolidationè il termine aulico per austerità):



Il presidente Monti concludeva con un’osservazione interessante, che è questa: “Siccome noi abbiamo distrutto la nostra domanda, se non ci sarà una politica europea, fatta non da noi, ma dagli altri, di espansione della domanda, i benefici che abbiamo raggiunto non saranno sostenibili nel lungo periodo". Insomma: noi per pareggiare i conti con l'estero abbiamo “ucciso” il Pil, e così abbiamo fatto salire il rapporto debito-Pil, creando un problema di sostenibilità del debito pubblico che prima non c'era, ma se gli altri non ci aiutano dovremo continuare su questa strada avvitandoci in una spirale deflazionistica. 

Questo è molto importante osservarlo, perché la percezione che si è avuta nel dibattito italiano è stata, vi ricordo,  che dopo le elezioni tedesche la Germania finalmente avrebbe fatto delle concessioni, e si sarebbe messa su un percorso di maggiore cooperazione con i paesi europei. Ma abbiamo visto che in Germania in realtà dopo le elezioni tedesche la governance politica non è uscita esattamente rafforzata, è dovuta venire a compromessi anche con il partito socialdemocratico, ma questo non ha particolarmente migliorato le cose, perché in realtà l'atteggiamento del partito socialdemocratico, come avevo anticipato nella mia opera di divulgazione e di pubblicistica, e come si sapeva, com’era evidente, è molto molto più, come dire, di chiusura nei riguardi dei partner europei, rispetto a quello dei conservatori.

Quindi, fondamentalmente, vorrei ricapitolare questo punto, prima di andare avanti. L’austerità a cosa serve? Serve di fatto a praticare la svalutazione interna, cioè a recuperare competitività se non si può aggiustare il cambio. La svalutazione interna è resa necessaria perché non si può avere svalutazione esterna, cioè perché non si può aggiustare il valore del cambio. C’è un preciso nesso causale monodirezionale che dice che siccome c’è l’euro dobbiamo fare soluzione interna, e quindi dobbiamo fare austerità. Questo è importante capirlo, perché nel dibattito politico e nel dibattito economico, alcuni miei colleghi continuano ad attribuire alla austerità, e non tanto all'esistenza di regole monetarie, come dire, un po’ irrazionali il fallimento conclamato delle politiche europee. Di fatto l'Eurozona è l'unica area nella quale la domanda sta flettendo, mentre negli Stati Uniti e in Giappone sta crescendo:



Il punto fondamentale è che la contrapposizione austerità vs. euro non ha senso, perché questi due fenomeni sono strettamente legati: dobbiamo fare austerità perché c’è l’euro.

Questo è il punto che va afferrato. Se non si afferra questo purtroppo ci si avviluppa in un dibattito  privo di senso. In altre parole, a contrario, se noi potessimo oggi ceteris paribus, a parità di altre condizioni, raddoppiare con una  bacchetta magica il reddito di tutti gli italiani, cosa che ogni politico vorrebbe evidentemente poter fare, soprattutto prima delle elezioni, il risultato sarebbe che la maggior parte di questo reddito andrebbe speso ahimè in beni esteri, perché gli attuali rapporti di prezzo che si sono creati all'interno dell'unione, e il fatto che il 50% del nostro commercio è comunque con i paesi dell’Unione europea (per una cosa che gli economisti chiamano gravity model of trade e che le persone di buon senso capiscono, ed è che commerci evidentemente di più col tuo vicino, perché ci sono dei costi di trasporto), bene: siccome rispetto ai nostri vicini abbiamo dei rapporti cambio, quindi di prezzo, che attualmente sono svantaggiosi a noi, se noi facessimo una politica di domanda espansiva semplicemente andremmo ad alimentare e a consolidare la crescita delle altre economie.

Quindi, in buona sostanza, dentro l'euro le speranze di crescita, anche agendo sulla leva fiscale o sulla leva tributaria ahimè sono poche.

L'euro è contrario al fondamento razionale di un'unione economica

Vorrei attirare la vostra attenzione sul secondo punto, riguardante il fondamento razionale delle unioni economiche. Noi viviamo immersi in un serie di messaggi che sono con grande abilità, con grande sottigliezza propagati dai media, messaggi che presentano una propria plausibilità, ma dalle cui seduzioni è importante che il decisore politico prenda distacco. In particolare, molto spesso, quando parliamo del nostro percorso europeo, usiamo quella che io chiamo la teoria del grande pennello. Non so se ricordate la pubblicità del pennello Cinghiale: per dipingere una grande parete occorre un pennello grande. Allora, calata nella realtà della politica economica internazionale, della globalizzazione, la teoria del grande pennello è che siccome la Cina è grande, anche noi dobbiamo diventare grandi, perché se i competitor sono grandi, anche noi dobbiamo essere grandi. Non vi è una particolare razionalità economica, in realtà, in questo tipo di atteggiamento.


Intanto, vi fornisco un immediato controesempio: il primo paese che mi viene in mente (perché tra l'altro, insegnando Economia della globalizzazione, devo spiegare ai miei studenti che ci sorpasserà per reddito e nel 2050 sarà il secondo paese al mondo per reddito pro capite, come si vede nell'immagine sottostante), cioè la Corea del Sud, è un paese schiacciato fra il gigante cinese e quello giapponese.

Stranissimamente (si fa per dire) non mi risulta che abbia sentito il desiderio di stringere un’unione monetaria né con la Cina né con il Giappone, ma ha preferito rimanere piccolo e flessibile, il che qualche cosa dovrebbe dirci. Potrei anche annoiarvi sulla sua struttura di vantaggi comparati, che è molto simile alla nostra (è un paese vocato all'export manifatturiero, privo di materie prime, e con un moderato svantaggio comparato nel settore primario):

Perché non ha fatto l’unione monetaria con il Giappone o con la Cina, dovremmo chiederci?

La risposta viene dalla teoria economica. Mi piace citare in questo senso Alberto Alesina, di Harvard, che nel 1997, nei Brookings Papers on Economic Activity,che sono una rivista estremamente prestigiosa, commentando un articolo di Maurice Obstfeld, dell'Università di Berkeley, chiarì un punto fondamentale, ovvero che il beneficio fondamentale di un’unione economica è la creazione di un vasto mercato interno che funga da ammortizzatore contro shock esterni di domanda. Mi spiego: crolla l'America perché c’è il crollo dei subprime,la gente si trova per strada e noi non esportiamo più verso l'America. Ma che ci importa? Se abbiamo un grande mercato interno la nostra crescita è alimentata da consumi e investimenti dei nostri cittadini. Questo sarebbe il senso di stringere un’unione economica.

A fronte di questo vantaggio, come sempre in economia, ci sono svantaggi, nel senso che in una unione, come voi sperimenterete in prima persona nei vostri rapporti per esempio con le istituzioni europee, più si è più si fa fatica a decidere, meno si è flessibili ecc. Nel 1997 Alberto Alesina confrontando i costi con i benefici, cioè il costo della scarsa flessibilità e della scarsa adattabilità alle sfide lanciate dalla globalizzazione (che un mastodonte necessariamente subisce), rispetto al beneficio di avere un mercato interno, concludeva che sarebbe stato meglio per l'Italia restare fuori dall'euro. Poi nel frattempo ha cambiato idea, io non so bene perché lo abbia fatto, ma questo comunque riguarda lui e la sua coscienza, non i nostri lavori oggi.

Quello su cui vorrei però attirare la vostra attenzione è che la svalutazione interna è incompatibile con la logica di un’unione economica. Perché? Perché se facciamo un’unione economica per avere un mercato interno florido, che ci difenda dagli shock esterni, ma ci troviamo poi nella situazione nella quale per difenderci da shock esterni dobbiamo uccidere la domanda interna, come vi ho detto all'inizio, cioè praticare politiche di austerità per promuovere la svalutazione interna. Con l'euro in caso di shock negativi di domanda i paesi in difficoltà possono cavarsela solo distruggendo la domanda interna, come ha molto apertamente e onestamente detto il presidente Monti alla CNN, cosa che ha scandalizzato tante persone, ma non può scandalizzare un economista, perché qualsiasi economista sa che se non puoi fare un aggiustamento di prezzo, cioè di cambio, devi fare un aggiustamento di reddito. Nelle funzioni di domanda, inclusa quella di importazioni, queste due cose: reddito e prezzi, se ne blocchi una puoi muovere solo l’altra.

Di fatto quindi l’euro ci impone di rinunciare all'unico beneficio effettivo (secondo Alesina, 1997) di un’unione economica: quello di disporre di un vasto mercato che ci isoli da shock esterni.

Così facendo, a ogni crisi obbliga voi, in questa aula, a cercare nuovi modi di sottrarre reddito ai cittadini italiani, onde evitare che essi mandino in deficit la bilancia dei pagamenti.

L'euro è un impedimento sulla strada delle riforme

In effetti questa cosa non è un'assoluta novità, credo, per nessuno di voi, che più di me e per motivi di percorso professionale siete interessati al dibattito politico, perché i politici autori dell'entrata nell'euro hanno ampiamente confessato che l’euro come scelta aveva un fondamento politico e non economico. Il fondamento politico era a diversi livelli. Uno degli argomenti che vengono ripetuti più spesso (lo ho sentito anche questa mattina in una trasmissione radiofonica un pochino orientata alla quale ho dovuto partecipare) è quello secondo cui legandoci a un paese più forte e più virtuoso di noi saremmo stati costretti a fare delle riforme, a diventare più bravi. Questo atteggiamento è quello di chi dice che diciassette uccelli se legati insieme volerebbero meglio: lo sintetizzo così.
Entriamo nel merito: intanto fosse anche vero che legandoci a paesi più forti noi diventeremmo migliori perché faremmo le necessarie riforme strutturali, le riforme strutturali sono quelle dal lato dell'offerta (mercato del lavoro ecc.). Ora, il punto è che noi siamo in una crisi da carenza di domanda, quindi di offerta ce n’è anche troppa, per cui in questo momento occuparci delle riforme strutturali, cioè di aumentare l'offerta quando di offerta ce n'è troppa, non mi sembra il massimo della razionalità (poi ovviamente entrerò nel merito se me lo chiederete).

Ma il punto più interessante, o che almeno spero possa interessarvi, è che in generale il rapporto fra euro e incentivi alle riforme esattamente contrario di quello che viene propagandato. Mentre a noi è stato detto che legarci ci avrebbe stimolato a fare riforme, ormai esiste un corpo di letteratura scientifica piuttosto ampio e convincente che chiarisce come in realtà i vincoli esterni, i  cambi fissi, sono uno stimolo a rinviare, anziché ad anticipare, le riforme, per motivi molto semplici che vi illustrerò pianamente. E c’è anche un terzo punto: ormai esiste un corpo di letteratura scientifica piuttosto consolidato che dice che comunque, dove sono state fatte le riforme strutturali, in particolare quelle relative alla flessibilità del mercato del lavoro, esse hanno avuto effetti controproducenti proprio sulla produttività del lavoro, e anche qui il motivo è abbastanza intuitivo e cercherò di spiegarvelo nei limiti tempo che ho.
L'argomento secondo il quale legando a paesi migliori saremmo migliorati ha un antico lignaggio e deriva da un articolo di Giavazzi e Pagano pubblicato sulla European Economic Review del 1988, chiamato “L'importanza di legarsi le mani”, nel quale appunto si argomentava che un governo, o comunque una classe politica, cioè fondamentalmente voi, legandovi le mani a quelle di un paese supposto più virtuoso, sareste stati costretti a fare la cosa giusta, che nell’occasione in cui quell'articolo venne scritto era quella di avere meno inflazione.

In realtà analisi successive hanno chiarito che questo atteggiamento è un pochino semplicistico, e questo non solo e non tanto perché da un punto di vista democratico forse è anche giusto che un paese dove tutto sommato la sovranità è esercitata dal popolo possa decidere di comportarsi come meglio crede, ma per due motivi razionali.

Il primo è che, come hanno notato Tornell e Velasco nel Journal of Monetary Economics del 2000 (ma il lavoro circolava già dal 1995), i cambi flessibili sono uno strumento di disciplina dei governi, perché se un governo sbaglia, per esempio facendo una politica fiscale troppo espansiva, e quindi cominciando a indebitarsi con il resto del mondo, immediatamente il tasso di cambio flette, dando al mercato un immediato segnale del fatto che qualcosa non va. Non solo: il mercato comincia ad assorbire gradualmente delle perdite, perché se il paese svaluta chi ha prestato subirà una perdita su cambi, e si regola, si ferma, smette di prestare.

Cos'è successo in Europa invece?

È successo che paesi che in cui il settore pubblico o privato aveva atteggiamenti di spesa eccessiva si sono visti a prestare soldi a profusione semplicemente perché è mancato il segnale che la svalutazione del loro cambio avrebbe dato ai mercati. Perché la Grecia si è potuta indebitare ai livelli ai quali si è indebitata? Semplice: perché era credibile. Non vi fidate delle persone che vi dicono che in economia esistono cose solo buone o solo cattive. La credibilità, come tutti gli aspetti economici, ha un lato positivo e un lato negativo. Il lato positivo è che se sei credibile ti danno tanti soldi. Il lato negativo è che facilmente te ne danno troppi, e poi devi restituirli e non sai come fare. Questo è quello che è successo alla Grecia. Avesse avuto la dracma, questa si sarebbe svalutata e non saremmo arrivati alla crisi alla quale siamo arrivati. Ma questa cosa, che si sapeva dal 2000 e forse anche da prima, è stata recentemente ripresa da Fernandez-Villaverde ed altri (stiamo parlando di università come la LSE e la Columbia) in un articolo intitolato Political credit cycles (I cicli politici del credito), pubblicato sul prestigioso Journal of Economic Perspectives, nel quale si sostiene molto convincentemente una tesi molto semplice: è stato proprio l'accesso al credito a buon mercato, garantito dall'integrazione monetaria europea, che ha permesso ai paesi deboli di rinviare le riforme. Se non ci fosse stata una totale integrazione monetaria, paesi che si stavano indebitando troppo sarebbero stati penalizzati dai mercati con l'imposizione i tassi d'interesse più alti da subito, oltre che con la svalutazione del cambio, e semplicemente non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto. Peraltro questa cosa l'aveva detta anche Martin Feldstein nel 2005, e sto parlando di una persona che è stato capo dipartimento ad Harvard, nonché presidente del National Bureau of Economic Research. Vorrei anche che uscissimo dalla trappola di dire che gli americani parlano male dell'euro perché sono invidiosi. Esorterei ad avere un atteggiamento un pochino più aperto rispetto alle teorie che provengono da studiosi che insegnano in università così prestigiose.
Quello che sfugge, tra l'altro, e che in realtà è poi la chiave di lettura che vi propongo per un altro paio di snodi sui quali vorrei attirare la vostra attenzione, è che, proprio per il fatto che in economia non c'è nulla di intrinsecamente e totalmente buono per tutti, o intrinsecamente e totalmente cattivo per tutti, questa situazione, che spesso viene definita come una situazione che ha avvantaggiato la Germania, che quindi sarebbe cattiva, egoista e colpevole (secondo alcuni politici che si definiscono europeisti ma che per difendere l'euro attizzano in Italia sentimenti antigermanici - cosa che per me è un paradosso), questa situazione in realtà ha effetti di incentivo perversi anche sulle economie forti,e il motivo è molto semplice. Intanto se rimuovi i segnali che il mercato valutario dà, i creditori hanno un incentivo a prestare troppo, perché sanno che non incorreranno nel rischio di cambio. Perché i tedeschi hanno prestato così tanto ai greci, per esempio? Perché non essendoci più la dracma sapevano che avrebbero rivisto euro. Forse infatti rivedranno euro, ma forse anche no. Il punto però è esattamente quello che diceva il vice presidente Vitor Constâncio (trovate appunto la citazione all’ inizio). Ma c'è anche un altro aspetto. Tutti sappiamo che insomma l'euro è una moneta forte per noi ma debole per la Germania. Il problema è che se un paese riesce a fare profitti perché ha una valuta troppo debole, chiaramente non ha poi incentivi ad investire. Se ci fate caso, l'ultima slide di pagina 3 vi fa vedere che la Germania è il paese che ha il più basso rapporto fra investimenti e Pil nell'Eurozona, cosa che spesso non viene considerata.



Mi soffermo su un terzo punto, che è quello del reale impatto delle riforme strutturali, e poi mi avvio a concludere.

Le riforme strutturali dovrebbero migliorare l'offerta, ma la letteratura scientifica recente spiega però che la flessibilitàdel mercato del lavoro ha compromesso la produttività del lavoro, e questo non solo in Italia ma più in generale in Europa. Ci sono due lavori molto importanti di Robert Gordon e Ian Louis Dew-Becker, pubblicato nel 2008, e un altro di Francesco Daveri e Maria Laura Parisi, pubblicato nel 2010, che analizzano appunto il rapporto fra flessibilità del mercato del lavoro e produttività, scoprendo che quando si introduce flessibilità nel mercato del lavoro, soprattutto in uscita, per cui un lavoratore, come dire, si trova ad occupare posizioni precarie e non ha la possibilità di crescere con l'azienda, la sua produttività fatalmente cala, perché fondamentalmente il fatto di avere contratti a breve termine, di passare da una parte all'altra, impedisce quell’accumulazione di capitale umano che soprattutto in un sistema come quello italiano, basato sulla piccola e media impresa, avviene nel contesto dell’impresa e nel contesto di un rapporto di lavoro stabile e duraturo con un’impresa dove il lavoratore acquisisce queste competenze.
Vorrei giusto fare un rapidissimo commento sulle ultime due figure che trovate a pagina 4.



Veniamo accusati di non aver fatto le riforme strutturali, ma la linea nera fa vedere molto bene in che cosa è consistita la riforma strutturale della Germania: è consistita nella massiccia precarizzazione del mercato del lavoro che ha consentito una discesa della quota salari di circa 7 punti in 4 anni (mi riferisco al rapporto fra salari e Pil), quindi in una massiccia svalutazione competitiva salariale. Questo è un tipico esempio di politica beggar-thy-neighbour,cioè di politica di svalutazione aggressiva nei riguardi dei propri vicini, che poi saremmo noi. Ma questa politica ha dei costi sociali.



Li vedete nell’ultima figura, che mostra come l'indicatore di disuguaglianza dei redditi, il delta del Gini, in Germania sia decollato a partire dalle riforme strutturali. Ora, il problema è questo: la Germania è un paese ricco, e quindi se paga un po' di meno i suoi operai, gli operai stanno peggio di prima, ma stanno sempre meglio degli operai di un paese povero.

Se ci si lega a un paese ricco in un sistema che impone che l'aggiustamento in risposta a shock esterni passi attraverso la riduzione dei salari, vincerà sempre il paese ricco, perché quando il paese povero cerca di fare lo stesso tipo di aggiustamento, dovrà abbassare i salari al di sotto della soglia di sussistenza, che è poi quanto succede ora in Grecia.


L'euro sta diventando un gioco a somma negativa

Cosa dovrebbe chiedere e non potrà ahimè ottenere l'Italia durante il semestre europeo?

Mi dispiace concludere su questa nota negativa, che non vuole esprimere sfiducia nella capacità del vostro lavoro, nelle vostre competenze, e nelle competenze delle persone che ci rappresentano in Europa. Purtroppo, vedete, io ho molti colleghi i quali attualmente sostengono che risolveremo tutto andando in Europa a battere i pugni sul tavolo. Colleghi miei, quelli per i quali il problema è l’austerità: “Adesso andiamo in Europa e battiamo i pugni sul tavolo, così costringiamo l'Europa a fare meno austerità!”. Un vostro collega che non nomino, parlando con un mio collega che non nomino, ha fatto questa semplice obiezione: “Ma, gentile economista, il tavolo non c'è!”. Vale a dire: in Europa non esiste un reale spazio di negoziato ed è la crisi stessa che lo dimostra, perché se i paesi europei avessero avuto una reale volontà politica di cooperare, nulla avrebbe impedito loro di farlo già adesso, a bocce ferme. Anche con l'assetto istituzionale attuale la Germania avrebbe potuto fare quelle politiche cooperative che da quattro o cinque anni tutti i maggiori economisti mondiali le consigliano di fare nell'interesse di tutti. Ma lei non le sta praticando, e quindi ahimè credo che nessuno riuscirà, sbattendo i pugni sul tavolo che non c'è, a ottenere quello che si dovrebbe ottenere.
Cosa si dovrebbe ottenere secondo me? (un “secondo me” di  assoluta umiltà, nel senso che tutto quello che vi ho detto, ci ho tenuto anche a sottolinearlo, non sono idee mie ma provengono da studi di altri economisti).
È evidente che bisognerebbe ripensare le regole europee, e se uno proprio ci tenesse a mantenersi nell’euro, dovrebbe quantomeno orientare la politica fiscale nel senso di indirizzarla all'obiettivo esterno cioè all'obiettivo di mantenimento di conti esteri equilibrati, come di fatto già accade, ma in modo simmetrico. Vedete, all'inizio di questa relazione ho cercato di illustrare che la politica dell’austerità è stata fondamentalmente lo strumento attraverso il quale, tagliando i redditi, i paesi deboli hanno rimesso a posto i loro conti esteri. Bene: praticata in questo modo, si tratta di una politica intrinsecamente asimmetrica, perché  costringe chi è in posizione di debolezza a diventare ancora più debole uccidendo il proprio mercato interno. In un'Europa che volesse crescere armoniosamente e che volesse veramente profittare del beneficio di un'unione economica, cioè del beneficio di avere un grande mercato interno, bisognerebbe che anche i paesi in surplus facessero la loro parte, cioè facessero politiche più espansive. Bisognerebbe quindi introdurre una simmetria nelle regole fiscali europee, che in qualche modo assicurasse che i paesi in situazione di surplus facessero politiche più espansive.
Ci vorrebbe anche un'altra cosa, richiesta da tantissimi economisti, in Italia Emiliano Brancaccio, in Germania Eckhard Hein, ecc., ma posso citarne tantissimi altri, cioè ragionare sul fatto che non si può avere una maggiore integrazione economica europea se non si armonizza prima l'economia reale, e in particolare quello che è il cuore dell’economia reale, cioè il mercato del lavoro. La penultima figura mostra che il paese più produttivo (la Germania) è quello che ha tagliato di più i salari. Occorrerebbe invece che si stabilissero delle regole, che l'Italia si facesse promotrice, laddove potesse, di regole nel mercato del lavoro che garantissero un'evoluzione delle retribuzioni in termini reali, cioè in termini di potere d'acquisto, conforme all’evoluzione della produttività del lavoro. In tal modo i paesi meno produttivi sperimenterebbero certo una minore dinamica salariale, però quelli più produttivi sperimenterebbero una maggiore dinamica salariale (cosa che in Germania non c'è stata). Sperimentando una maggiore dinamica salariale sarebbero in grado di sostenere, attraverso le proprie importazioni, l'economia degli altri paesi, e si potrebbe effettivamente crescere insieme, cosa che adesso è impossibile.

Questo, naturalmente, come dire, vi toglierebbe un po' di lavoro, nel senso che, in quanto commissione finanze, con una maggiore crescita voi sareste in grado di far affluire alle casse dello Stato un maggiore gettito, senza dover imporre ulteriori balzelli alla popolazione che qui vi via inviato a tutelare i propri interessi economici.

Come dicevo, purtroppo, l’Italia non riuscirà a ottenere queste cose, perché se ci potesse riuscire semplicemente non saremmo in crisi, e purtroppo temo che allo stato attuale delle cose, e questa è una valutazione ormai ampiamente condivisa, se anche le ottenesse, queste regole razionali non annullerebbero la necessità di un riallineamento dei cambi nominali fra i paesi dell'eurozona, cioè del ritorno a valute nazionali.

Voglio chiudere, e mi prendo ancora due minuti, per farvi notare un dettaglio riferito all’altro discorso, quello del sistema bancario. Ormai emergono segnali di insofferenza nei riguardi dell'attuale assetto anche da parte dei paesi forti, cioè in particolare della Germania. Questi segnali di insofferenza derivano dal fatto che se fino ad adesso l’Unione Economica e Monetaria è stata un gioco a somma nulla, dove uno vinceva e gli altri perdevano, adesso sta diventando un gioco a somma negativa (come dice Alberto Montero Soler). Credo che tutti sappiate che la situazione della Germania è meno florida di quanto una certa stampa un po' propagandistica spesso ci vuole far credere, e credo che sia da attribuire a questo il fatto che Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, abbia chiesto che nel prossimo stress test sulle banche europee sia imposto il fatto di pesare i titoli del debito pubblico all'attivo con coefficienti che esprimano la rischiosità del paese emittente. Una decisione su questo non è ancora stata presa, Vitor Constâncio mi pare abbia detto che verrà presa a gennaio, ma vi vorrei far riflettere su una cosa: qualora questa decisione venisse presa sarebbe una decisione estremamente grave, perché significherebbe ammettere che i titoli di stato sono rischiosi, cioè significherebbe ammettere che le famose parole di Mario Draghi“we will do hatever it takes to defend the euro, and believe me, it will be enough” (faremo tutto quanto necessario per difendere l’euro, e credetemi, sarà abbastanza) verrebbero in questo modo sconfessate. Il fatto che la Bundesbank abbia voglia di sconfessare in questo momento Draghi, cioè il difensore dell’euro, fermo restando che la Germania non è un monolite come non è un monolite l’Italia (non vi conosco tutti ma so che rappresentate correnti politiche diverse, diversi partiti, diversi orientamenti, e la stessa cosa succede in Germania), segnala chein Germania una parte dell’establishmentè stanca di questo gioco e vuole sganciarsi. Siccome in Europa, non per colpa nostra, lei comanda un pochino più di noi, credo che questo ci imponga una riflessione, che deve essere una riflessione sugli scenari futuri più che sulla difesa di un passato che si è dimostrato finora fallimentare.
Vi ringrazio per l'attenzione e sono a vostra disposizione.


(come si dice: fatemi sapere, chiamate voi. Io me ne sto alla finestra, come la mia nonna Quartina affacciata per ore sul corso di Jesi, a osservare lo struscio. Sapete, la gioventù che mira, ed è mirata, e in cor s'allegra? Una tradizione marchigiana, insomma. Lei, però, non era una macroeconomista. Il suo approccio era più micro: da impercettibili indizi - l'abbigliamento, il modo in cui le persone che si incontravano si salutavano, o mancavano di farlo, l'assenza o la presenza a certi orari di alcuni attori di quella variegata Comédie humaine - lei riusciva, tenace, paziente, a risalire la catena delle cause, a distillare una torbida e velenosa sintesi, che invariabilmente si condensava in questa sentenza politicamente scorretta: "Le donne è puttane munto be'...". Ecco, la sua, forse, più che una micro, era una macro microfondata (quella che ormai piace a solo Stagnaro, che non ha letto Kirman). D'altra parte, se lo diceva lei, che in quanto donna, per quanto fuori mercato, era pur sempre in conflitto d'interessi... Ma è delle donne come degli italiani: per ogni donna sul mercato le altre sono zoccole, per ogni italiano gli altri sono improduttivi. Chi avrà ragione? Nessuno, credo. E poi, di quella casa affacciata sul Corso, e del suo ombroso cortile interno, non ricordo solo questo. Ricordo anche le parole della principessa Maria, appese sopra alla macchina da cucire da una persona che aveva molto sofferto, per la più crudele delle sciagure, la più contraria all'ordine naturale delle cose: la morte di un figlio primogenito. Ricordate quelle parole?"Tutto comprendere è tutto perdonare").

(...chi non capisce è piddino!).

(...per il nuovo anno, e prima che queste cose le dicano tutti - cosa che non tarderà ad accadere...)

QED n. 25: la Finlandia e l'acqua calda

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Un'altra sorpresona, vero? Una delle tante per chi segue questo blog...

Ma come "la crisi arriva in Finlandia"? Arriva? Scusate: vogliamo dare un'occhiata, così, tanto per gradire, alla Fig. 2 de Il tramonto dell'euro? Ve la riporto qui di seguito insieme con il breve testo che la commenta:

Figura 2 - Posizione finanziaria netta sull'estero dei principali paesi dell'Eurozona nel 2007 (punti di PIL)



La figura 2 mostra che nel 2007 solo due fra i principali Paesi dell’Eurozona erano creditori esteri netti: il Belgio e la Germania. Tutti gli altri erano debitori esteri (se pure di pochissimo, come la Francia), e i Paesi in crisi più profonda (Spagna, Portogallo, Grecia) erano anche quelli con il maggior debito estero netto, nonostante due di essi avessero debito pubblico esiguo (Spagna) o nella norma (Portogallo).
Se usiamo come metro il debito estero, la Finlandia viene a trovarsi in mezzo al gregge delle “pecore nere”, il che, per inciso, fa sospettare che certi atteggiamenti intransigenti dei suoi governanti (“pignorare il Partenone”, per chi se lo ricorda; Letizia, 2011) potrebbero essere dettati dalla consapevolezza di non essere in ottime acque.



La crisi non è arrivata in Finlandia. La Finlandia era già in crisi. Puntuale come un orologio svizzero (fuori dall'Eurozona due più due continua a fare quattro) la non trascurabile posizione debitoria netta della Finlandia (peggiore di quella dell'Italia, nel 2007), ha cominciato a mietere vittime: la Nokia, ad esempio. Il Sole 24 Ore, giustamente, la metteva in chiave aziendalistica: "er modello de bisnes, er probblema de bbrend" e supercazzole manageriali varie assortite. Va benissimo. Anzi: so far so good, come direbbe un economista.

Per noi che umilmente e grossolanamente ci atteniamo alla chiave di lettura macro, le cose stavano in termini molto più semplici: sai com'è, se come paese hai debiti, come paese devi realizzare, cioè vendere qualcosa a chi ti fa il favore di comprarselo. Quod factum est, ipsum est quod faciendum est: nihil sub sole novum, diceva un trader del terzo secolo avanti Cristo. La cessione della Nokia era un chiaro segnale: se cominci abbiando che vuoi il Partenone, finisci con la coda fra le gambe cedendo la prima azienda del paese (la seconda essendo gli zanzarifici, che però, stranamente, nessuno desidera. Dice: ma fa freddo. Sì, però fa anche umido...).

Per voi che amate le figurine,ve ne faccio vedere un paio, così capite anche meglio il senso dell'articolo dell'Indro (in particolare, il riferimento alla precedente crisi finlandese). Intanto, qui avete crescita e inflazione nel paese delle zanzare dal 1980 a oggi (fonte: WEO):



dove si vede che in effetti nel 1991 la Finlandia si prese una bella legnata, non dissimile da quella presa nel 2009: -6% di crescita nel 1991, -8.5% nel 2009. Guarda caso, la legnata del 1991 arrivò al termine di un periodo di crescita e inflazione crescente. Vi ricordate quella storia del centro e della periferia? Prima della crisi, in un paese periferico, aumentano crescita e inflazione, perché l'economia cresce drogata dal capitale estero.

"Eh, ma i finlandesi sono biondi, quindi sono virtuosi, quindi da loro le cose saranno andate in modo diverso!", dirà il piddino, nel suo delirio di autorazzismo deliziosamente dadaista, dove i "quindi" vengono randomizzati sulla pagina con esiti sempre esilaranti.

Invece no: mi dispiace, piddino, ma ha ragione la Bibbia. Nihil sub sole novum. E infatti guardati i saldi settoriali della Finlandia:


Che succede prima del 1991? Ma la solita cosa, caro piddino! La vedi la linea rossa, gli afflussi di capitali esteri? Va su, arrivano soldi da fuori. La vedi la linea blu, il saldo pubblico? Va su, il governo è tanto bravo, taglia tanta spesapubblicaimproduttiva, e soprattutto, siccome l'economia cresce al 5% (vedi sopra) incamera tante belle imposte. E naturalmente, la vedi la linea verde, il risparmio netto del settore privato? Va a picco. Quindi? Quindi la solita storia: anche la Finlandia del 1991 stava seguendo la traiettoria di ogni paese periferico prima di una crisi finanziaria: conti pubblici in ordine e capitali esteri che arrivano per finanziare il settore privato.

Cosa succede dal'euro in poi?

Intorno al 2000 la Finlandia era esportatrice netta di capitali (linea rossa sotto zero: un afflusso negativo è un deflusso) e il settore pubblico stava di nuovo con i conti a posto (surplus intorno al 5% del Pil, linea blu), con un settore privato moderatamente in surplus anche lui.

Ricordate? L'importazione netta di capitali è il riflesso dell'importazione netta di merci. Quindi nel 2000 la Finlandia era esportatrice netta di merci, ma con l'entrata nell'euro la situazione si è progressivamente e inesorabilmente deteriorata.  La linea rossa sale. È un bene? No, è un male, perché significa che la Finlandia si sta avviando da una situazione di esportazione netta (deflusso) di capitali a una di importazione netta (afflusso) di capitali. In altre parole: nel 2000 la Finlandia era esportatrice netta di capitali per quasi il 10% del suo Pil (la linea rossa sotto zero), e quindi esportatrice netta di merci per lo stesso importo (cioè aveva un surplus delle partite correnti del 10% del Pil). Nel 2010 è diventata importatrice netta di capitali per circa il 2% del Pil, cioè ha un deficit delle partite correnti di pari importo.

Il 2% del Pil è poco, direte voi.

Superficiali! Non riesco proprio a farvi entrare in testa che in economia quello che conta è la dinamica. Se parti da un surplus di 10 e arrivi a un deficit di 2 vuol dire che in dieci anni hai perso più di un punto di Pil all'anno di surplus verso l'estero, e questo significa una cosa sola: che l'euro non te lo puoi permettere. Punto.

Come si risolve la situazione?

Nel 1991 è stata risolta come razionalità vuole che si risolvano situazioni di questo tipo:


Una bella svalutazione del 25% (a spanna) e via andare. Qui vedete il tassi di cambio effettivi (cioè la media ponderata dei tassi di cambio della Finlandia verso i principali partner commerciali) sia nominali che reali (vi ricordo che il cambio reale è il rapporto fra prezzi finlandesi e prezzi dei partner espressi in una comune unità di misura). Come al solito, la svalutazione nominale (cioè il deprezzamento della valuta) ha praticamente coinciso con quella reale (cioè con il recupero di competitività) per il semplice motivo che come al solito una svalutazione del 25% non si è tradotta in una inflazione del 25% (come al solito, cazzo, come sempre, cazzo, lo volete capire? Non è mai andata in un altro modo perché non può andare in un altro modo, con buona pace degli informatori cialtroni o diversamente intelligenti!)

Come al solito  dopo il riequilibrio dei rapporti di cambio la crescita è ripartita e l'inflazione diminuita arrivando quasi a zero. Come al solito!

Poi arriva l'imbecille in prima forma canonica, quello che dice: "Bagnai, tu la fai facile, ma nel 1992 l'inflazione in Italia non è aumentata perché abbiamo fatto austerità...". Sì, io la faccio facile, traditore e porco, ma tu mi spieghi come mai in Finlandia l'inflazione non è aumentata nonostante il saldo del bilancio pubblico sia precipitato fra 1990 e 1992 di più di 11 punti di Pil (da un surplus del 5% a un deficit del 6%)? La vedi la linea blu nella seconda figura? Ti sembra austerità quella?

Scusatemi, non dovrei lasciarmi andare, ma non ce la faccio più...

Comunque, lasciamo un attimo da parte gli imbecilli (era il senso del mio post del 31 dicembre) e cerchiamo di capire cosa ci dicono questi dati.

Nel 1991 il deleveraging (vedete, so parlare da economista anch'io) del settore privato fu favorito da una politica fiscale attiva, e il riequilibrio dei conti esteri da una pesante svalutazione nominale.

Oggi il cambio nominale non è più un'opzione (se non nel senso che il comportamento della Germania tende a farlo sopravvalutare danneggiando praticamente tutti gli altri paesi dell'Eurozona). La "svalutazione interna" ha determinato un miglioramento della competitività (flessione del cambio reale) del solo 5%, che non ha minimamente invertito la tendenza infausta del saldo delle partite correnti. Le politiche fiscali espansive, a loro volta, sono solo un ricordo. I virtuosi finnici hanno approfittato dello spazio fiscale che Maastricht lascia loro, portando il saldo pubblico dal +4% nel 2008 al -3% nel 2009, ma questo non è stato abbastanza per invertire la tendenza negativa del risparmio netto privato (la linea verde), che da un massimo del 10% del Pil, raggiunto dopo la svalutazione del 1991-92, si trova ora in zona retrocessione, vicino o sotto allo zero (cioè il settore privato finlandese si sta indebitando con l'estero). Lo Stato finlandese non può indebitarsi abbastanza da aiutare famiglie e imprese finlandesi a rimettere i propri debiti.

Essere biondi non basta.

E l'acqua calda cosa c'entra, direte voi?

Vi faccio un regalo. Qui trovate un articolo che scrissi il 26 febbraio 2010 per il Centro di Pescara, articolo nel quale dicevo che la variabile più importante per monitorare lo stato di salute di un paese è il suo indebitamento estero. Va bene, voi lo sapete, e oggi lo sanno quasi tutti. Nel 2010 era una cosa un po' più di nicchia, ma nemmeno tanto. Si era ai tempi in cui il Centro pensava di farmi un favore pubblicandomi! Oggi forse ho più lettori io...

Guardate poi questo. Eh, già, tre anni dopo ci è arrivato anche l'Economist.

Ora, una cosa che non è drammaticamente originale se pubblicata sul Centro nel 2010, ne converrete, diventa la scoperta dell'acqua calda se pubblicata sull'Economist nel 2013. Ma siccome gli italiani sono esterofili, voi non citate il Centro: citate l'Economist. L'autorazzismo del piddino se ne compiacerà. Tanto, chiunque sia a dirgliele certe cose, lui non le capirà mai. E a noi piace ricordarlo così...



(e la morale della favola qual è? Quella che dice il ministro finlandese. La Finlandia l'euro non se lo può permettere. Essere biondi non basta, e quindi alla Finlandia uscire conviene, oh, se conviene! E non in compagnia della Germania, come pensano alcuni...)

QED n. 26

Un dubbio sullo spread

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Scusate, forse è meglio se ci faccio un post. Rispondendo a kthrcds ho avanzato questo dubbio (che qui riprendo con un grafico a supporto):



A me piace molto Mazzalai, ma in questo caso devo dissentire.

C'è un vizio logico nel dire che lo spread è diminuito perché il suo benchmark (il tasso privo di rischio) è cresciuto. Lo spread, in linea teorica è il il differenziale di tasso, che misura la maggior rischiosità dei titoli del debito sovrano di un paese "rischioso" rispetto a un paese ritenuto "sicuro". È (in teoria) quello che si chiama "premio per il rischio" (risk premium). Se lo spread è 3 e il benchmark 2, il paese rischioso ha tasso 5. Se il benchmark (tasso del paese privo di rischio) passa a 4, il paese rischioso ha tasso 7. In altre parole, non è perché diventa più rischioso il paese benchmark che lo spread si riduce (come mi pare dica Mazzalai, o forse glielo fate dire voi).


Esempio: quando la Germania Ovest tirò su i tassi al tempo dell'Anschluss, non è che lo spread fra noi e lei si ridusse, ricordate? Gli dovemmo star dietro, tenendo lo spread intorno ai 400 punti, con tutte le conseguenze del caso, fra le quali la crisi del 1992 (sì, sì, dottor Giannino, il problema fu la spesapubblicaimproduttivabrutto, con la quale però si erano ingrassati i suoi amici imprenditori... sì, sì, marxisti dell'Illinois, il problema fu la speculazionecattivabrutto, che però era stata resa possibile dall'inversione a U dei vostri compagni del PCI, che avevano deciso per convenienza personale e politica di appoggiare il progetto SME...).
 



Se le cose stessero meccanicamente come dice Andrea, fra tasso tedesco e spread ci dovrebbe essere una correlazione negativa: ogni volta che il tasso tedesco sale, lo spread dovrebbe diminuire. Invece la correlazione è 0.15 (positiva), e per di più non significativamente diversa da zero (t di Student 1.37, per chi sa cos'è).

Certo! C'è stato un caso in cui lo spread è sceso perché il tasso tedesco è salito! Dopo l'unificazione, quando per fare il macello che hanno fatto i virtuosi alamanni avevano bisogno di capitali esteri. Un bello shock politico, no? Ma poi lo spread si è nuovamente stabilizzato intorno al solito 4% (400 punti base).

C'è stato anche un punto in cui lo spread è salito perché sono saliti i tassi italiani, anzi, due punti: uno nel 1987, a debito pubblico crescente ma tassi fissi (SME credibile). Chissà perché, eh? E uno prima del settembre 1992, quando il governatore (Ciampi) era "in trincea" per difendere la parità di cambio non credibile che l'Italia aveva rispetto all'ECU nel contesto dello SME.

C'è stato anche un punto in cui lo spread è sceso perché sono scesi i tassi italiani, e in modo molto più consistente, dopo l'uscita dallo SME con svalutazione per motivi spiegati qui.

Chiaro il punto? Dietro i movimenti dei tassi c'è sempre un quadro politico da prendere in considerazione. Vedete, in economia succede sempre che qualcosa scenda e qualcosa salga. Prendete i saldi settoriali: a parità di saldo estero, se sale il saldo pubblico deve scendere quello privato. Ora, io sono il primo a dire che se i grandi soloni che ora vengono a dirci che ce l'avevano detto (i vari Minosse, Nannicini, Monacelli) sapessero un minimo, ma un minimo sindacale, di contabilità, staremmo tutti meglio. Ma la contabilità non basta! Poi bisogna anche avere un minimo di modello interpretativo. Certo, fra la contabilità senza modello e il modello senza contabilità preferisco il primo, per i motivi esposti a suo tempo (e forse ora capite anche quel vecchio post).

Però proviamo a mettere insieme le due cose, volete?

Se lo facciamo, non possiamo che restare un po' perplessi nel veder attribuire la diminuzione dello spread alla crescita del benchmark (il tasso tedesco), e questo tanto più in quanto, a rigor di logica, il debito italiano è diventato molto, ma molto più rischioso (pur restando perfettamente sostenibile) di quanto non lo fosse quando lo spread era a 500!

Rispetto ad allora abbiamo avuto:

1) un aumento di più di 10 punti del rapporto debito/Pil;
2) una situazione di conclamata instabilità politica;
3) la necessità ormai impellente di sovvenire agli obblighi del Fiscal compact (necessità puramente teorica, son d'accordo, ma comunque noi e i mercati dovremmo far finta che non lo sia).

Quindi il nostro spread in teoria dovrebbe aumentare, indipendentemente da come sta messa la Germania (che sta messa sempre peggio).

Perché invece non aumenta?

Credo che sia per il solito motivo. Perché in pratica (prima ho detto in teoria, ricordate?) lo spread misura il rischio di "euro breakdown", di crollo del sistema, come ha tante volte chiaramente spiegato Claudio Borghi Aquilini. Ora, è chiaro a tutti che da qui a maggio nessuno vuole che il sistema crolli. Se poi si riuscirà a non farlo crollare è un altro paio di maniche. Io credo di sì (cioè credo che il sistema terrà), ma who knows?

Il punto è che esattamente come per mandar via Berlusconi è bastato un giro di telefonate per dire "vendete titoli italiani" (lo dicono Bini Smaghi e Sinn, non io), per tenere in piedi la baracca (e quindi basso lo spread del paese più politicamente sensibile, che è in questo momento l'Italia), basta un giro di telefonate per dire "non vendete titoli italiani". Full stop. Non è complottismo: è come funzionano mercati oligopolistici fortemente concentrati e in grado di catturare, tramite un'azione di lobbying, i decisori politici. Ed è anche una cosa molto più semplice:


il comportamento razionale e non necessariamente coordinato (se preferite) di agenti economici indipendenti gli uni dagli altri i quali razionalmente prevedono che la baracca starà in piedi fino a maggio e si regolano di conseguenza.

Ergo, se il tasso tedesco scendesse prima delle europee, credo che i nostri tassi scenderebbero. Se invece si allargasse di nuovo lo spread, avrebbe ragione Mazzalai e sarei lieto di ammetterlo.


Occhio a cosa ho detto, però!

Mazzalai avrà ragione se prima delle europee lo spread si allargherà a fronte di una discesa del tasso tedesco che lasci invariati i tassi italiani (hint: è mai successa una cosa del genere? Guardate il grafico. Sì, mi piace vincere facile...). Se invece lo spread si dovesse allargare perché i tassi italiani crescessero a tassi tedeschi costanti (o magari crescenti), allora vorrà dire che ho ragione io e che i mercati avranno deciso di chiamare il bluff del "whatever it takes".

Chiaro? Disegnino? Ci faccio un post?



Ecco. L'ho fatto. Aspetto come sempre i vostri commenti e gli elementi di informazione e discussione che saprete darmi per capire.



(ironia della sorte, in questo momento er Palla sta studiando Minosse. Domando: "Dov'era il palazzo di Minosse? Un aiutino: la targa era CN ma non era Cuneo..." Risposta: "Cnosso". Meno male! Ecco, una delle soddisfazioni che ci dovremmo togliere sarebbe quella di far tornare Minosse a Cnosso, magari in compagnia di Boldrin. Noi siamo non violenti, ma naturalmente non possiamo impedire che altri non lo siano. Possiamo solo deprecarlo. Avete passato la misura, avete insultato, vilipeso, cinicamente deriso interi popoli, e ancora parlate? Ammiriamo tutti il vostro coraggio. Che lo avevate detto venite a dirmelo in faccia. C'è un convegno internazionale a Pescara a maggio: presentate i vostri paper, la stampante la porto io...).

Left, wake up!

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(thanks to Grace Anderson's translation, I am able to offer here to your reflection a post written by Mimmo Porcaro, an Italian intellectual close to the Partito della Rifondazione Comunista (PRC) - a small fraction of the former Italian Communist Party (PCI). Once upon a time, the PCI was a large political party. Since 1991 it changed many times its name and split in different pieces, the largest wreck being the Democratic Party (PD), who managed to become the relative majority party by transforming itself in what had been for decades the relative majority party, namely, the Democrazia Cristiana (no need to translate). This transformation was accomplished some days ago, when Matteo Renzi became its secretary.



You can think of PRC as an Italian Syriza. This, at least, would be the PRC ambition, because Syriza in Greece was able to overcome the neoliberal left - the Pasok. On the contrary, in the last Italian political elections (February 2013) the PRC took part in an "incredible" (not credible) coalition of "left-wing" parties that reached a scanty 2.2%.



However, although their “numbers” are very different, Syriza and the PRC share the same pro-euro attitude. Their common political philosophy is: "we cannot leave the euro because the Treaties forbid it, but we must disobey the fiscal rules of the Treaties". It is a short-sighted philosophy, a philosophy without logic, a philosophy made of outmoded idealism, a philosophy that does not reckon with the most simple facts of economic accounting. In the absence of an exchange rate realignment, any expansionary fiscal policy in Southern countries, by increasing their imports, would worsen their external debt position, thereby calling for further sacrifices for the working class in the future. Besides that, the euro is in its essence an instrument of neoliberal policies, because its raison d’être is to favour capital mobility, to promote financial integration, that always and everywhere coincides with labour disintegration.



In a public meeting held on December 2012 I had warned the PRC secretary against the short-sightedness of this attitude, without much success. He resigned after his failure, but did it the Italian way, which means that he is still ruling the relic of his party.



True, in Greece this kind of hypocrisy was accepted by Syriza constituency. But Greek people are in despair. A much better example, and one I made during that meeting, would be the unfortunate trajectory of the Front de Gauche (FDG) in France. Credited with some 17% of the votes before the presidential elections of 2012, because of its supposedly critical political proposal – the euro-sceptic economist Jacques Sapir had cooperated to its economic programme – the FDG reached a 11% in the first round of the May 2012 French presidential elections, and fell shortly thereafter to 7%, in the legislative elections of June 2012.



Why? Well, I have a simple explanation (I had provided it in August 2011 writing on “Il Manifesto”). Most people affected by the crisis are opening their eyes, they see where the problem lies, and they understand the dirty game of the so-called “critical left” parties: to work as fake, call-bird, parties, that attract some left-wing voters, and give their votes to the neoliberal left, in exchange for some favour. This is the job Mélenchon (the secretary of the FDG) did in 2012, and for that job he was rewarded by its constituency with the loss of a 4% share (going from 11% to 7% in a month)! This is also the job PRC is doing in Italy, where a number of local bodies are run by PD-PRC governments. For that reason the PRC leadership has no interest in changing its attitude: as far as the euro regime will last, there will be always a fair reward for its useful idiots.



No matter how rational this attitude may be in the short run, it still meets a big problem: the euro regime will not last forever. The Roman Empire fell, so did the Sacred Roman Empire, so did the Russian Empire, so will do the Finance Empire. And the day after people will have to recognize what I explain in my book on “The sunset of the euro”: namely, that to the extent that “left” is supposed to defend “labour”, there cannot be a thing like a “left-wing euro”!



Mimmo Porcaro took part in the PRC workshops on the economic crisis, where he was the one and only intellectual to report correctly the argument I make in my book. He promoted, with others, a euro-critical motion in the PRC congress, that gathered 30% of the votes (interestingly enough, this seems to coincide with the share of euro-sceptics inside Syriza!).



Why am I losing time on these details? Well, it is to show you that something is slowly moving in the Italian left. My address of August 2011, where I implored the Italian left not to leave the debate on the euro to the right-wing movements, went unnoticed by the political leaders, but gathered a lot of across-the-board consensus in the public at large. As we use to say in Italy, it’s never too late – well: this is a rather universal idiom, I suppose!



The time of the illogical political philosophy, of the backyard mentality, of the partisan interests, is over. From now on, every “progressive” party refusing to tackle the issue of the euro seriously will be an accomplice of neoliberal policies and of the resistible ascent of the populist right. I am glad and proud to see that Mimmo shares this view).



Left, wake up!

by Mimmo Porcaro

The “pitchfork” movement is ambiguous, coarse and largely influenced by the far right. Of course it is. But if what we have been saying for some time about the effects of the crisis are true, and similarly our considerations about the transformation (and disintegration) of the job market, the shutdown of the political system, the neoliberal nature of the Italian Democratic Party (PD) and the lack of autonomy of the largest national trade unions are true, then it is inevitable that any popular radical protest should take on an ambivalent form and become a subject of dispute between Right and Left about objectives and methods of action. It is also therefore inevitable that we should witness an increase in protests without any real conflict, conflicts without any real movements and movements that are decidedly populist, in the sense of believing in slogans like “send all the politicians packing”; incapacity for identifying the enemy; a tendency to take out frustrations on underprivileged groups and a fascination for authoritarian leadership and government.. It will certainly be a matter of degree, of analysis based on the facts and assessed on a case-by-case basis, and perhaps the pitchfork revolt of 9 December will appear to be a particularly ambiguous case. However, movements can no longer be prejudged without participation or at least an attempt to participate, to pass among them or without having separated the wheat from the chaff: without having proposed, from within a definition of the movements’ aims and objectives. From now on, to snub or to object to a movement because it smacks of populism will mean to snub or object to any movement, with the exception of trade union movements which, on the other hand (and this is not a coincidence) are generally absent, or student movements, which (and this is no coincidence either) are far from effective.

If the Left wishes to return to being the Left and to count for something, it must first distance itself from what now appears to be its prevailing attitude. If it wants to be a solution for the country, it must first acknowledge that it is in itself a part of the problem. That is because, some time ago, its majority component passed to the enemy and it is jointly responsible for the neoliberalist destruction of democracy and the welfare state (far from being the “dangerous right-wing”… the most dangerous Right is already here and is already in power: it is called “larghe intese”, it is called “Grosse Koalition”, it is called PD and the so-called “European socialism”…). That is because the participatory democracy alternative proposed by the relics of the anti-globalization movement is extremely weak compared to the pressing need to reform class and property relationships, and it is particularly incomprehensible for that large part of the population that has neither the time nor the resources to participate in anything. That is also, finally, because the same radical Left, perhaps afraid of the consequences of its own best analysis, cannot free itself from the trap of pro-Europeanism (and pro-euro). It has not until now offered any neo-socialist solutions capable of freeing the country from dependence on transatlantic capitalism, nor can it construct a “national-democratic” discourse capable of preventing the dissemination of right-wing nationalism. It also seems unable to release itself from the idea that the single real popular struggle is that of the CGIL [General Coalition of Labour Union] or other movements which have always been connected to the Left (such as the meritorious NO TAV [No to the high-speed train] movement).

We have to stop both the hesitation and the illusions. We have to wake up and begin perhaps to tackle the main problem once and for all: that of breaking the alliance between the unionized (and skilled) groups of workers and pro-European capitalism, and the alliance between the weaker groups of workers and protectionist capitalism, to construct real employment unity (whether self-employment or otherwise). How can it be done? By concentrating efforts on breaking down the oligopoly of the largest trade unions, without therefore always agreeing with FIOM [Federation of Metalworkers] and without eternally hoping that the CGIL will come to its senses. That can be done by constructing people’s committees against the recession (and a “social party” that we usually only talk about) capable of moving in the magma of current conflicts. Certainly, strong ideas can be formulated (new socialism, constitutional and democratic nationalism...) but also ideas that are apparently more prosaic. Understanding, for example, that the taxation question has changed form, because if the small-time tax evader of the past defended his wealth by stealing from the welfare state, today’s tax evader – given the harshness of the recession and the increasing hijacking of public funds for payment of the national debt – defends himself from poverty by stealing money from financial speculation. We certainly should not be praising tax evasion but we must acknowledge that to demand recovery of unpaid taxes today is to condemn people to starvation. We must recognize that the harshness of the penalty on the small-time tax evader is the result of the choice of not demanding money from the large-scale evader. In acknowledging that where the unionized workers would be offered, instead of the generic fight against evasion, a reduction in the tax burden and in the fines for “small fry” and a decided increase in taxation of unearned income and capital gains, the trade unions would finally manage to attract those different categories of workers: those who are obliged to register for VAT in order to work (unskilled), the new generation of self-employed workers and finally the highly-qualified traditional freelance professions. Above all, policies of this kind would break up the abovementioned workers’ ill starred alliance with large capital which, reflected in the incapacity and the guilt of the current Left, now represents the main obstacle to a democratic solution to the Italian crisis.

53 anni di spread

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Visto che l'argomento vi è piaciuto, qui allarghiamo lo zoom:


Avete 53 anni di spread fra titoli di Stato tedeschi e italiani (dati mensili dal gennaio 1960 al novembre 2013, fonte International Financial Statistics).

Io, col vostro permesso, il post lo farei scrivere a voi...


Addendum delle 21:51: ecco, bravi, avete già cominciato a scriverlo chiedendo cosa è successo ai tassi reali, perché in effetti un certo interesse la cosa ce l'ha. Ai tassi reali è successo questo:


Un quadro un po' diverso, vero?

Bisogna precisare cosa sono le variabili. I tassi di interesse sono il Government bond yield delle International Financial Statistics (serie: XXX61...ZF..., dove XXX è il codice paese). Il tasso reale è stato calcolato ex post sottraendo brutalmente la variazione tendenziale dell'indice di prezzi al consumo (per la Germania serie 13464.D.ZF... e dal 1992 13464...ZF..., per l'Italia serie 13664...ZF...).

Questo grafico, ad esempio, ci fa riflettere sulla storia che abbiamo sentito tante volte: "Eh, ma i tassi reali all'inizio degli anni '80 sono cresciuti ovunque perché è cambiata la politica americana...". Sì, la politica americana è cambiata, in effetti, ma le cose pare che siano state un po' più complicate.

Vi do qualche altra summary statistic, così ci pensate un po' su. La media dello spread (primo grafico) su tutto il campione è 2.73 (273 punti base), quella del differenziale fra i tassi reali è -0.61 (-61 punti base). Ovviamente questo secondo risultato è influenzato dai tassi reali negativi degli anni '70, che poi indicano che i tassi nominali si sono sì "impennati" (vedi il primo grafico), ma meno dell'inflazione.

La correlazione fra spread e livello dei tassi tedeschi (nel primo grafico) è 0.287 con una t di 7.6 (correlazione positiva e significativa), la correlazione fra differenziale fra tassi reali e tasso reale tedesco è -0.09 con una t di -2.29 (negativa e significativa, anche se molto debole e molto meno significativa che nel caso precedente; per la cronaca, le due t hanno 645 gradi di libertà).

La correlazione positiva fra livello dei tassi e spread da ragione a chi dice che lo spread si è "schiacciato" perché si comprime proporzionalmente al livello del tasso nominale benchmark, ma in effetti guardando la prima figura si capisce che il quadro è più complesso, perché come notava uno di voi c'è un periodo, fra il 1974 e il 1978, nel quale il tasso benchmark (quello tedesco) scende, ma lo spread decolla.

Poi di cose da dire ce ne sarebbero tante, e a molte domande non saprei rispondere. Una cosa è certa: l'oculata gestione della crisi sta permettendo ai governo tedesco di finanziarsi a tassi reali negativi da quando? Ma certo, dalla data del mio famoso articolo...

Finchè dura...




Zero trollerance

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Una premessa: la crisi uccide

La crisi ha avuto un reale impatto in termini di vite umane, e il dibattito in merito dovrebbe essere noto perché non è particolarmente recente.

Ad esempio, che in Italia i suicidi siano aumentati con la crisi lo attesta uno studio pubblicato nel 2012 sul Journal of Epidemiology and Community Health (rivista ISI, impact 3.39). Il controfattuale prodotto dagli autori valuta in circa 500 fra 2008 e 2010 i suicidi e tentati suicidi in eccesso rispetto alla tendenza naturale. Naturalmente il fenomeno deve essere valutato nel lungo periodo. Da allora sono passati tre anni e sette giorni, nei quali quasi ogni giorno abbiamo assistito a una tragedia. Difficile che il trend si sia orientato al ribasso. Ci sono anche studi più recenti che attestano la correlazione fra i suicidi per motivi economici e il tasso di disoccupazione. Non mi sembra sorprendente, considerando quanto vediamo sui giornali, ma è importante che ci siano studi quantitativi e metodologicamente seri.

La situazione è comune agli altri paesi europei periferici colpiti dalla crisi. Lo attestava uno studio pubblicato nel 2011 da The Lancet(e qui il pedigree non serve), facendo notare che con la crisi erano sì diminuiti i morti per incidenti stradali (chissà perché!), ma in compenso erano aumentati i suicidi.

Nel 2012 il British Journal of Medicine ha riportato la replica di Kentikelenis (Harvard University) alle critiche che Liaropoulos (Università di Atene) aveva mosso con i suoi coautori a un precedente studio dello stesso Kentikelenis (Harvard University) pubblicato su The Lancet, nel quale Kentikelenis (Harvard University) sosteneva che la crisi stava avendo un impatto sul numero dei suicidi in Grecia. Liaropoulos (Università di Atene) sosteneva il contrario, e sosteneva anche di non essere in conflitto di interessi (a differenza di quanto accade in economia, nelle riviste mediche è essenziale dichiarare se si è in conflitto di interessi). Il dibattito è molto interessante, e il motivo per il quale insisto sulle affiliations non è perché io creda moltissimo nei rankinguniversitari: per dire, ad Harvard insegna Alesina, che nel 1997 era contro l’euro mentre oggi è a favore dell’euro, e a Pescara insegna Bagnai, che nel 1997 insegnava alla Sapienza ed era scettico sui vantaggi dell’euro, mentre oggi... è scettico sui vantaggi dell’euro (come si cambia)! Quello che conta, come sempre, è la qualità degli argomenti. Ora, a parte il fatto che chi lavora in una struttura della sanità pubblica greca ha un ovvio conflitto di interessi nel difenderne la qualità, semplicemente perché da quello che dice dipende quanti fondi riceve (in una situazione come quella greca è abbastanza chiaro che i conflitti di interesse non dipendono solo dal fatto che magari lavori per una casa farmaceutica: potrebbero anche semplicemente dipendere dal fatto che vuoi continuare a lavorare), è la qualità degli argomenti del Liaropoulos che lascia perplessi. Come nota Kentikelenis, sembra strano che Liaropoulos dica che la sanità pubblica in Grecia non rifiuta cure ai pazienti, mentre al contempo afferma che molte persone sono senza copertura sanitaria e che la chiesa ortodossa sta correndo in soccorso degli ammalati. Ma si sa, la coerenza non è la principale virtù degli euristi, quale che sia il loro campo di ricerca.

Va da sé che poi è saltato fuori che Liaropoulos non era in conflitto di interessi, no, non sia mai! Era solo un consulente della troika. Peraltro, suppongo che anche economisti lo siano. Sarebbe utile avere una lista, per motivi di trasparenza. Ma, ripeto, questo problema le riviste scientifiche in economia non se lo pongono, come non si pongono il problema della replicabilità dei risultati empirici (purtroppo, e con rare eccezioni, tipo il Journal of Applied Econometrics che normalmente pubblica i datasetutilizzati).

Una sintesi più aggiornata di questo dibattito si trova nella bozza del rapporto su Sanità e crisi economica dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità. Con tutte le cautele del caso (considerando che anche i dati epidemiologici, come quelli economici, si “consolidano” dopo qualche tempo, che per pubblicare una ricerca scientifica occorre tempo, che ogni ricerca è soggetta a critiche e revisioni metodologiche, ecc.), il rapporto non nasconde le proprie preoccupazioni. Qualche dato a caso: il rapporto conferma l’inversione di tendenza nei suicidi, che nei paesi in crisi stavano diminuendo prima del 2008 e poi sono tornati ad aumentare; Lettonia, Lituania, Grecia e Spagna hanno visto un’impennata nel tasso della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale (che non sono esattamente l’anticamera della salute); è stata documentata una relazione fra perdita del lavoro e infarto (in Grecia); sempre in Grecia sono aumentate le infezioni da HIV per la riduzione dei programmi di distribuzione delle siringhe, ma sono anche aumentate del 38% le stillbirth, poetica e pudica espressione inglese (nascite silenziose) che indica i bambini nati morti.

Eh sì, in effetti da morti si sta zitti: è il bicchiere mezzo pieno. Ma in questi casi è difficile evitare che la mente si soffermi sul bicchiere mezzo vuoto.

Se solo i suicidi in eccesso fra 2008 e 2010 nella sola Italia sono circa 500, considerando tutti gli altri paesi e tre anni passati non proprio in modo ameno, anche se alcuni di questi paesi sono di dimensioni demografiche trascurabili (ma la Spagna non lo è), me lo fate dire che la crisi ha preteso un tributo di migliaia di morti (o di non nati)? Posso dirlo? C’è qualche elemento ostativo particolare? Vi sembra una menzogna? Bene: non parlatene con me: parlatene con i refereedi The Lancet o del British Journal of Medicine, e soprattutto parlatene con le madri greche dei figli nati morti.

Sed de hoc satis.

Una settimana cominciata bene...

Ricordate Laggente, il simpatico troll che ci era stato presentato da istwine? La settimana era iniziata con questo suo simpatico tweetdel 3 gennaio:



il quale mi accusava di falso per il grafico che vedete, proveniente da questo post.

Ah, a proposito: i beoti siete voi, ma nervi saldi, non rispondete.

Ovviamente di falso non c’era nulla, come facevo subito notare. Il simpatico Laggente allora, capiva di aver fatto un passo falso (appunto), perché a fronte di un’accusa di falso scatta la querela, come notava giustamente l’amico Massimo Rocca. Notate che provvedevo immediatamente lo screenshot dei dati, affinché Lapoveraggente avesse modo di ravvedersi, di chiedere scusa. Lapoveraggente a questo punto comincia a preoccuparsi (e infatti il tweet è scomparso dalla sua timeline, ma c’è lo screenshot e ci sono i testimoni, mentre son rimaste le sue simpatiche minacce– ma se non trovate nulla non preoccupatevi!), e quindi ad arrampicarsi sugli specchi, dicendo che io avrei usato la valuta nazionale invece del PPP, e che questi confronti si fanno a PPP. Cosa ne sappia lui di come si fanno i confronti lo ignoro, e se anche avesse avuto ragione si sarebbe trattato di un errore e non di un falso, ma errore non c’era, il contesto del post era inequivocabile: siccome confrontavo la dinamica lituana con quella italiana vista qui, mi occorreva evidentemente usare la stessa unità di misura, ovvero il Pil pro capite in termini reali e in valuta nazionale. Peraltro, avessi usato il Pil a PPP avrei ottenuto praticamente lo stesso risultato in termini di dinamica:


dove l’unica differenza sarebbe stata che invece di sette anni, valutando a PPP la Lettonia ci avrebbe messo solo sei anni a tornare ai livello di reddito pre-crisi, la maggiore rapidità (non particolarmente determinante) essendo peraltro dovuta al fatto che la valutazione a PPP è a prezzi correnti (quindi di per sé si presta a confronti internazionali, ma non a confronti intertemporali). Va da sé che la forte ripresa del Pil pro capite è in entrambe le misurazioni dovuta all’esodo della popolazione, quindi Lapoveraggente sta ridendo su una tragedia umana.

In sintesi, l’obiezione de Lapoveraggente era risibile (oltre che ovviamente infondata e tendenziosa: del resto, chi critica l'euro non ha bisogno di truccare i dati, mentre abbiamo innumerevoli esempi del contrario), resta l’accusa di falso, e l’ilarità provocata dal veder intervenire nel dibattito il dottor Trezzi, che a sua volta mi accusava di aver falsificato i dati perché la Lettonia non essendo ancora nell’euro alla data della pubblicazione dell’ultimo WEO, i suoi dati erano in valuta nazionale e non in euro. Qui ci starebbe bene un doppio mastica, dato che:

1)      ripeto: mi interessava dare una valutazione congruente con quella di questo post, e quindi mi interessava appunto la valuta nazionale: che si chiamasse euro, lat, o ugo, poco cambiava;

2)      il lat è agganciato all’euro dal 2005, come si vedeva bene nel post, quindi, volendo esprimere il grafico in euro-lat, bastava scalarlo di una costante.

Una contrazione dell’asse delle ordinate (il dottor Trezzi, spero, mi capirà) non cambia la collocazione dei punti di massimo relativo di un grafico, no?

Comunque, fatto lo screenshot, e godutami un po’ la surreale bagarre, son passato oltre. 

...e proseguita meglio

Ma la settimana non era finita, eh no! Perché poi, sempre il tre gennaio, son saltati fuori i famosi sette punti di Grillo: i sette punti che lo suturano definitivamente al progetto eurista. Ora, anche qui per voi nessuna sorpresa. Che il Movimento 5 Stelle sia (con buona pace delle tante brave persone che ci militano e che conosco) una colossale operazione di intercettazione del dissenso orientata al mantenimento del sistema eurista qui lo abbiamo detto da tanto tempo, argomentandolo in vario modo, ad esempio qui, qui, qui, quie altrove, come ricorderete.

Nessuna sorpresa, e infatti il buon Claudio Borghi, letti i punti, riconosceva su Twitter la mia lungimiranza. Ma ci voleva veramente poco: lo spazio riservato alla desinenza in “azzo” non poteva lasciar dubbi in chiunque “del senso suo fosse signore”.

Sintesi: se veramente vuoi fare un discorso critico:

1)      non continui con questa menata del debbitopubblicacastacriccacoruzzione, sulla quale ormai il Movimento 5 Stelle è stato sorpassato a sinistra perfino dalla Bce (che placidamente ammette che la crisi nasce nella finanza privata);

2)      non proponi un referendum completamente campato per aria a una popolazione totalmente disinformata.

Ovviamente, apriti cielo! La dimensione piddina dei tanti onesti seguaci del movimento si palesa nel loro non voler a nessun costo ammettere di esser stati presi in giro. Lo so, è sgradevole, ma che ci volete fare? Sono le cinque fasi del lutto: voi siete ancora alla negazione. Ci vorrà tempo. 

Naturalmente in questo discorso si inserivano i fini politologi ortotteri, i quali portavano avanti un argomento che già era fasullo prima delle politiche, e non lo diventa certo meno ora, prima delle europee! L’argomento è: sì, va bene, l’euro non va, ma non possiamo dirlo direttamente perché perdiamo consenso, quindi intanto mentiamo un po’ (le famose demi-vierges) per arrivare al potere, poi, siccome noi siamo quelli bravi, faremo la cosa giusta.

Io di questo avevo già parlato, come sapete, ribadendo il concetto qui, ma la cosa definitiva mi sembra l’abbia detta Simone Previti. Conciso, lapidario, definitivo. Punto. Discorso chiuso.

Invece no! Perché i fini politologi non ci volevano proprio stare, e uno, in particolare, mi attaccava un pippone allucinante, parzialmente riassunto qui.



Ora, per me “attuare strategia di consenso” significa mentire, se nel farlo dici cose che perfino la Bce smentisce, se proponi soluzioni farlocche dal punto di vista istituzionale, ecc. Significa mentire per raggiungere il potere. Gandhi dovrebbe averci insegnato che si può raggiungere il potere (se lo si merita) senza praticare violenza, e mentire, dire che la colpa è del debbitopubbblico, ad esempio, è fare violenza alla verità, ma non solo a quella. Perché se in base a questa violenza fatta alla verità poi vai a tagliare la spesa sanitaria, il risultato sono i morti, come il rapporto dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità sopra citato dimostra.

Stanco di questo andazzo, di questo buonismo da quattro soldi a supporto di un progetto che perfino Luigi Zingales ha definito criminale, concludevo con una frase lapidaria e bloccavo tutti gli ortotteri (dopo aver bloccato tutti i Laggente):



Inutile dire che il buon Morris proprio non ne voleva sapere, e continuava a simpaticamente seccarmi (diciamo così: cercare il dialogo) sul blog, qui. Contento lui...

Nel frattempo...

Meanwhile... Luigi Bersani aveva avuto un malore, come voi sapevate e ora so anch’io.

Ora, ragioniamo un attimo. Voi sapete che io ho esplicitamente detto di aver iniziato la mia opera di divulgazione perché preoccupato dall’esplosione di violenza che il dilagare della menzogna rende inevitabile. Voi sapete che sono un non violento. Voi sapete che sono molto insofferente verso i sempliciotti che parlano di Norimberghe varie. Voi mi avete accusato (o se non voi altri) di essere un leccaculo del PD (semplicemente perché dico che, anche se il piddino antropologico – l’uomo pseudocolto che sa di sapere e invece nulla sa e nulla vuol capire – merita il nostro disprezzo, rimane il fatto che non puoi cambiare un paese ignorando o ancor meno cancellando il partito di maggioranza relativa).

Voi questo lo sapete bene, e lo sa chiunque voglia saperlo (quindi, ad esempio, dovrebbe saperlo chi "fa informazione").

Sapete anche che per l’uomo Bersani ho sempre avuto la massima simpatia. Lo attesta l’affettuoso soprannome col quale lo abbiamo definito in questo blog: le sue maniche perennemente rimboccate, ad ostentare un improbabile, ma tanto rassicurante, pragmatismo, ci hanno immediatamente fatto pensare alla ‘zdora emiliana che si tira su le maniche prima di stender la pasta. E così, con simpatia, lo abbiamo nominato. Le sue sparate surrealistiche sulla spesa con la carriola ci avevano regalato momenti di ilarità per i quali gli eravamo sinceramente grati: la crisi è talmente tragica, che non si può che povare affetto per chi riesce a strapparci comunque un sorriso.

Quello che non sapete è che io ho il massimo rispetto e la massima simpatia anche per il Bersani politico. Certo! Perché, posto che per ripristinare un minimo di dibattito democratico in Italia occorrerà metaforicamente radere al suolo il PD, come studiosi più competenti di mehanno ben argomentato, dal momento che il PD è l’unica forza che ormai si ostina pervicacemente a negare le problematicità dell’euro, e che per 30 anni ha soffocato il dibattito sul percorso di integrazione monetaria europea (dopo essersi dichiarato contrario ad essa), bene: posto che il problema è questo, Bersani è indubbiamente stato una soluzione. Il suo spectacularly ill-timed endorsementdi un sistema del quale tutti ormai contestano non tanto l’assurdità economica (quella, come sapete, è stata fuori discussione fin dall’inizio, anzi, fin da prima!), ma la legittimità democratica, la sua “fedeltà all’Europa del rigore” dalla quale tutti si dissociano, come i bambini quando la mamma entra nel salotto e vede con disappunto i cocci del suo vaso preferito (“Chi è stato? Sei stato tu, FMI?” “Io no!” “Allora è stata la tua sorella BCE?” “No, io no...” “Allora è stata la sorella maggiore: Commissione, proprio tu?” “No, mamma, non sono stata io...”), questa sua sesquipedale goffaggine politica ha contribuito al meritato insuccesso elettorale del suo partito (sì, sì, certo, è stato un successo, infatti ora abbiamo il governo Alfetta, no?), e ai dolori di pancia che hanno portato, in zona Cesarini, all’emergere di un dibattito, e, per dirne una, alle dimissione del da voi (ma non da me) tanto vituperato Fassina, che a Bersani gliele aveva cantate (lui, non io).

Chiunque veda nel PD un problema non può che essere grato a Bersani per aver trovato la soluzione! Certo, la soluzione era a portata di mano. Che il "rigore", l'"austerità" dovesse necessariamente fallire è una cosa che sta su tutti i libri, come ho chiarito in Commissione Finanze, e avevo anche chiarito, in altra sede, che la politica era sbagliata perché lo scopo era ideologico: distruggere lo stato sociale, una cosa non esattamente di sinistra (ma fate voi...).

Quindi, a me Bersani sta simpatico sia umanamente, che politicamente: ha lavorato per noi. Figuratevi un po’ se vado ad augurarmi la morte di una persona (essendo non violento), e per di più di una persona che mi ha fatto un favore simile (aprire suo malgrado il dibattito nel monolite piddino)!

Lungi da me.

E, notate bene, ho iniziato parlando di tanti poveri morti che nessuno ricorderà mai, perché in qualche caso non sono nemmeno mai nati, ma non mi scandalizza affatto che per un malore a una persona si facciano titoloni che nessuno fa per tanti bambini mai nati (chiarisco: mi riferisco all'incremento delle nascite di bambini morti in Grecia). È giusto che sia così. Non sto dicendo che esistono uomini di serie A e uomini di serie B. Sto dicendo che un personaggio pubblico comunque non fa una vita esattamente semplice. Quindi, forse  è anche giusto che nel momento della sofferenza abbia manifestazioni di solidarietà che magari non si riserverebbero ad altre persone, nemmeno se si venisse a conoscere il loro dolore. Piuttosto, a me sembra che invece che a lui, che era sedato e non poteva riceverle, le manifestazioni di solidarietà sarebbero dovute andare alla sua famiglia. Quando uno fa il lavoro che fa Bersani la famiglia purtroppo la vede poco (ne so qualcosa io che faccio un lavoro molto meno impegnativo), ed è veramente triste che in giorni di festa, di riposo, Bersani sia stato sottratto (per fortuna non irreversibilmente) all’affetto dei suoi cari.

Ora sta meglio, e va bene così. Speriamo si rimetta presto, e che possa presto tornare ad aiutarci, suo malgrado, nell’opera di sana disgregazione del suo partito (dove per “disgregazione” si intende semplicemente: apertura di un dibattito).

Un vile attacco

Voi direte: “va bene, siamo d’accordo, ma che c’entra questo con quello che ci stavi dicendo?”

Niente, appunto.

“E allora perché ce ne parli?”

Eh, ve ne parlo perché l’eroe da tastiera di cui sopra, quello che cancella i tweet, usando la solita tecnica dell’estrapolare dal contesto una frase, ne ha dato un’interpretazione tutta sua:


Sì, questa è un'altra cosa che si porta molto: paragonarmi a Toni Negri. Ora, io di Negri so poco, ma una cosa la so: l'euro gli piace. Quindi il paragone è non solo un pochino tendenzioso e molto diffamatorio ("cattivo maestro", "terrorista", ecc.), ma direi del tutto inappropriato.
 
A quel punto partono le squadracce. Comincio a ricevere una valanga di insulti senza capirne esattamente il motivo. Per regolarità formale, a fini giuridici, chiedo conferma. Uno è Tommaso Leso:


poi bloccato.

Un altro è Davide Maria De Luca, che si avventura in un ardito sillogismo, imbeccato dal sagace Laggente, concludendo così:


De Luca non l’ho bloccato, e capite facilmente perché. Essendo un giornalista, dovrebbe essere più responsabile! Uno che si chiede “who checks the factcheckers?” e poi si mette a insultare a destra e a sinistra sull’imbeccata di un fake, senza nemmeno andare a vedere in quale contesto è stata emessa la frase riportata, evidentemente ha bisogno di un richiamo al senso di responsabilità. Peraltro noterete che io gli ho offerto la possibilità di spiegarmi in via amichevole, e lui l’ha rifiutata (una cosa che normalmente in questi casi viene valutata).

Segue un altro operatore dell'informazione:

 
E via così per una mezza giornata. Poi si son calmati, qualcuno si è scusato, io ho una carrettata di screenshot, ora decido caso per caso cosa farci, e poi Dio pensa.

Certo, considerando che dall’inizio dell’anno abbiamo avuto prima questo:


(ah, notate bene: questa è la più leggera delle tante che ho raccolto dal buon Romani, che aveva iniziato qualificandosi giornalista e poi ha modificato il suo profilo), poi questo:


(e anche qui avete la più leggera), poi questo:


e via dicendo, certo, un taglio bisognerà darlo, cominciando, per ovvi motivi, dagli anonimi (chi vuole insultare deve avere il coraggio di metterci la faccia), poi dai giornalisti, e poi da che riveste cariche politiche. I sempliciotti possiamo anche lasciarli stare, forse.

Ah, naturalmente queste cose mi divertono e basta. Sapete, con tutto il rispetto per l'uomo De Luca, le sue un po' improvvide escandescenze mi sembrano trascurabili a fronte della stima di un Marcello Foa (indipendentemente dall'autorevolezza e visibilità dei rispettivi organi di stampa), e con tutto il rispetto per l'uomo Furlan, le sue competenze mi sembrano lievemente inferiori a quelle di Leonardo Becchetti.

Magari sbaglierò: me ne assumo la responsabilità. Ecco, facciamo così: da ora chi sbaglia se ne assume la responsabilità...

La morale della favola

E allora voi direte, come qualche espertone già ha fatto: la colpa è tua, perché tu stai su Twitter e attacchi briga. Calmi. Perché sto su Twitter lo so io, e presto lo saprà anche qualcun altro (un minimo di signaling occorre, non possiamo arrivare fino a maggio così...). E poi, soprattutto, Twitter, che nonè una chat, è invece uno strumento molto utile per scambiarsi informazioni preziose.

Ad esempio, voi conoscevate i Trecento?

Eccoli qua:



(con un grazie a Erasmo Partenopeo).

Ora, vedete, se non fossi su Twitter non avrei saputo dell’esistenza di queste persone. O meglio: qui era circolato il bando col quale il PD li reclutava, ce lo ricordiamo tutti. Ma vederli in faccia non ha prezzo! La fisiognomica si riconferma una scienza esatta. Notate con quanta disinvoltura il Leonida di cotanti Spartoni (si chiamano così gli abitanti di Sparta? Non ricordo bene...) ci racconta che lui si diverte a costruire fake. Chissà, magari anche Laggente, o il suo amico DisfareilPD, sono suoi capolavori di arte povera. La curiosità di andarlo a scoprire c’è, e ce ne sono credo anche i mezzi tecnici.

Ma al di là di questi aspetti folcloristici, rimane il dato: persone che si autocollocano fra i buoni, fra gli Übermenschen, persone che poi, c'è da scommetterci, sono della stessa risma di quelle alle quali tante volte io, e anche voi, abbiamo sentito augurare un tumore a Berlusconi (perché siccome siamo moralmente superiori, possiamo permettercelo, pensano loro), candidamente ammettono di fare opera di disinformazione in rete, non si sa bene con quali soldi, a difesa dei valori “democratici”, che poi sarebbero, ad esempio, quell’Europa del rigore per la quale vedi sopra...

Non si sa se sia più lo stupore o il ribrezzo. Anzi, si sa: il ribrezzo. Perché poi, quando questa mattina, prendendo il caffè, devo sentire a PUDE pagina il giornalista di turno che riporta le preoccupazioni per le infami (perché tali sono) manifestazioni di giubilo che pare ci siano state in rete per l’incidente occorso a Bersani, o per quello occorso alla Merkel, quando certe verginelle si stupiscono per tanta violenza, bisognerà pure ricordar loro che chi semina menzogna miete violenza, no? Avete mentito, vi siete costituiti in corpi organizzati per mentire, avete portato la gente allo stremo, e ora giustamente ne deprecate l’esasperazione. La depreco anch’io, non la condivido, ma la capisco, nel senso che ne vedo e ne descrivo le cause. E una di queste cause, cari sepolcri imbiancati, siete voi.

Quindi, per quanto riguarda noi, atteniamoci al nostrodizionario. E per quanto riguarda loro, sarà d’ora in avanti il caso di adottare un atteggiamento di cortese fermezza. Se trovate gente (o Laggente, finché dura, visto che poi i tweet li cancella) che mi insulta, screenshot e email. Non inquinate la discussione sul blog con fetori vari. Ma se si passa la misura avvertitemi.

Vedrete che basterà poco per ripristinare un minimo di civiltà.

QED n. 27: What? France? Yes. France.

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On May 6, 2012 I published on this blog a post (in Italian, my favourite language: apologies for this outmoded home bias), commenting on François Hollande election. My point was very simple: France was in a bad predicament, not so very dissimilar from the Italian one. It was slipping slowly but inexorably from a current account surplus to a current account deficit, i.e., from being a net external creditor to being a net external debtor, just as Italy was doing.

This was my graph at that time:




Here is a revised and updated version:



The graph is updated, because in the meantime we have had three other releases of the WEO. It has also been revised because in the previous graph I reported the sectorial balances as sectorial deficits (using the  convention adopted for instance by Giancarlo Gandolfo – see the first row of his flow of funds matrix, Table 6.1 in his textbook). In this revised version, I report the sectorial balances as balances: a positive sign indicates a surplus, a negative sign indicates a deficit. The latter convention is now widespread, and for this reason I decided to invert all the signs in the graph.

A few remarks. France expansionary fiscal policy in 2009, in response to the Lehman shock, is shown in the first graph as an increase in government deficit (the broken line F), in the second graph as a decrease (worsening) of government budget (the blue line T-G). The inexorable worsening of  France’s external indebtedness comes out in the first graph as a steady fall of the current account balance (the dotted line CA), and in the second one as a steady increase of net capital imports (the red line M-X). Last but not least, in the second graph I have marked as dotted lines the IMF (rosy) forecasts of the three balances.

What was my point in May 2012?

A very simple one. Since its entry in the Eurozone France, like Italy, or Finland, or Spain, had experienced a steady worsening of its net external lending, and since 2005 it had become a current account deficit country (i.e., a net foreign capital importer). For that reason, France would have been forced to put into practice an austerity policy.Why? Because in the absence of the re-equilibrating mechanism provided by exchange rate flexibility, austerity is the only instrument a government has in order to reduce its external deficit. If the nominal exchange rate does not respond to external imbalances, you need to engineer some unemployment,in order to reduce wages, thereby fostering exports, and cutting imports (as a consequence of the fall in income). As simple as that.

From that sad economic truth I drew three political conclusions.

The first one was that Hollande’s election was no surprise. As I had many times remarked (starting in August 2011), each time an adjustment of the external accounts called for “social butchery” (this is how we call in Italy the neoliberal policies against social and economic rights), the European elites had chosen a butcher with a red apron, for the simple and good reason that blood stains stand out on red less vividly than on white (the colour of the former Christian-Democrats) or blue (the colour of the “right-wing” Berlusconi party). Explanation: in all evidence, anti-labour policies seem to be much more acceptable to workers if they are proposed by “left-wings” politicians. This is what happened in Germany with comrade Schröder and his Hartz reforms, this is what happened in Italy for thirty years, where we witnessed the ultimate dismantling of wage indexation by comrade Amato, the labour market reform by comrade Treu, the introduction of the euro (with the related “austerity” policies) by comrade Prodi, and so on.

The second conclusion was that Hollande would have a very difficult life. Inverting the more than decennial trend in France’s current account would prove very difficult, in the light of the accumulated competitiveness gap with Germany, especially in times of global recession (where you cannot rely on external demand to sustain your exports). This would have accelerated the rise of Marine Le Pen, that I had foreseen in 2011 (and many others even earlier, I suppose). In other words, Hollande would at any rate have been forced to deceive his constituency, eventually leading France into a situation of political instability and social trouble (even before the next presidential elections).

The third political conclusion was less trivial. Guess who was France’s creditor?



Yes, of course, you knew very well! (and here is the source).

From this simple accounting fact, a twofold conclusion could be drawn.

First: that every time the Franco-German axis was mentioned, the appropriate response would be a laugh (or a yawn). In the history of mankind there are no examples of an axis between a creditor and a debtor, for the simple reason that creditors and debtors have (legitimately) conflicting interests. Debtors like inflation, creditors dislike it. Deflation’s beauty is in the eyes of the bond holder. Of course you know that Europe is caught in an unprecedented deflation because it is ruled by a large creditor: Germany. Oh, didn’t you notice that? I apologise for having to wake you up. Better late than never...

The reverse of the coin was that any hope that Hollande would go to Germany, bang his fist on the table and force Angela Merkel to adopt a more reasonable (i.e., less deflationary) policy was simply ridiculous. Capitalism is a strange thing. The debtor has actually a lot of bargaining power (as some recent studies demonstrate; here Granville and Nagly, 2013). As the old saying goes: “If I owe you a pound, I have a problem; but if I owe you a million, the problem is yours.”

However, every technical problem has a political solution. Much in the same way as Mario Monti was in Italy, François Hollande in France was a liquidator of his country’s external debt, and in order to accomplish this task on behalf of Germany he would have had to “destroy internal demand” in his country (as Mario Monti very aptly put it here).

There was no hope that comrade Hollande would come to the rescue of the poor Southern countries, no hope that a sense of Latin solidarity, or simply of economic rationality, would push him to fight against Germany’s irrational policies. No hope. Nobody could rescue the Italian, Spanish, Greek, Portuguese citizens, but themselves.

Needless to say, I was attacked in my country by left-wing (?) heterodox (?) economists (?) because my blasphemy had reached the point that I doubted comrade Hollande’s willingness and ability to rescue the European proletarians. Well, to be honest, my blasphemy was two-fold: not only the Italian “critic” economists had pinned a lot of hopes on Hollande, but also... hem...

And apparently I was right (which unfortunately means that the others were wrong).

Well, to be honest (not humble: honest), it was not me: national accounting was right. It has close affinities with arithmetic, something which is really difficult (although not impossible) to suit to one’s prejudices. The bare logic of sectorial balances was enough to predict what is now happening. Late forecasts came from the Economist (in November 2012), and  the awareness that France is the largest “sick man” (actually: woman) of Europe, and that Hollande is not willing nor able to do something about that, is now (January 2014) widespread. Too late, not only for France, but also for the other peripheral countries, that have lost a lot of time deluding themselves with their vain hopes in comrade François.


I can hardly be considered as a friend (or a servant, as someone graciously defined me) of rating agencies. However, I must disagree with Krugman’s view that the S&P downgrade of France is purely “ideological”. This makes little sense. I mean: of course rating agencies are ideological! This is not such a big discovery. One just needs to remember the Lehman case. But

(1) it makes little or no sense to depict Hollande as a defender of widows and orphans, and

(2) France has worse fundamentals than the UK and a much worse economic outlook.

As for (1), just have a look at what Hollande is doing. After fighting Sarkozy’s proposal to increase VAT in order to finance a reduction in the tax wedge, he is now applying exactly this policy, blamed as “supply-side socialism” by the Front de gauche (each North is a South of another North, and each left-wing has something to its left...). Now, VAT is a regressive tax, and it was already increased at least twice (French VAT is a very complicated thing, one could write a novel on it: In search of lost rates). The purely demagogical 75% rate on the “high incomes”, instead, had a very difficult life and is supposed to come into force only in 2014. The widows and the orphans are not better off, most of them will not vote socialist anymore, and this was foreseeable (and foreseen by at least one economist). As a matter of fact, on top of all this one should consider that although there may be more or less harmful, more or less equitable, ways to perform austerity during a recession, austerity in a recession is mostly wrong, and the very reason why France (and Italy, and Greece, and Portugal, and...) is practicing austerity policies during a recession is that they lack a powerful equilibrating mechanism: exchange rate flexibility. But Hollande (like Letta, Rajoy, Papademos, and so on) seems not to understand that sooner or later he will have to reckon with this fact. Therefore, in my humble opinion, Krugman’s enthusiasm for comrade Hollande seems (and seemed) a bit misplaced, at least until now. I have proved that I am not saying that with the benefit of hindsight.

As for (2), have a look at UK sectorial balances:



You may not see such a big difference from those of France, at first sight. For instance, the UK reacted to the 2008 shock by increasing its public deficit, just as France did (this shows up as a sudden drop in the blue T-G line). But, have a look at the red line, at external indebtedness. True, the UK is in a structural current account deficit position, i.e., it is a net foreign capital importer (the red line is above zero). Is that a big problem? Well, not at all, for two reasons, one “structural”, and another “dynamic” (in the economic sense). Firstly, because the UK has one of the most developed financial markets around the world. The UK’s structural current account deficit reflects the willingness of foreign citizens to invest in pound-denominated assets (a willingness that rose, for obvious reasons, during the Eurozone crisis). Each time you buy a pound-denominated asset issued by a UK-resident agent, the UK imports foreign capital (well, if you are not an UK resident unit, of course). There are no particular reasons to assume that this will lead to an unsustainable net financial asset position, to the extent that the UK will continue to look like a much safer haven for international savings than the Eurozone! Secondly, since the inception of the euro France’s external balance deteriorated (France became a net importer of foreign capital, starting from a net exporter position), while the UK one was stable. And very often in economics the pattern of variables matters much more than their level. This pattern reveals that France is importing foreign capital for very different reasons than the UK: not as the result of its leading position in the international financial markets, but as the result of its deteriorating competitiveness in the “euro age”.

Yes, you know it: the UK did not enter the euro. France did, and in all evidence it could not afford it. The red line in France’s sectorial balance graph reveals this simple truth.


Messrs Hollande, Barroso, Rehn (and many others) may very well ignore it, but what is economically unsustainable eventually proves to be historically unsustainable. May God etc.

Meanwhile, Mme Le Pen will reap the fruit of having said some trivial economic truths. Yes, she mixed them up with a lot of questionable things, I know. I am not happy at all with this outcome, and I have done my best to warn the politicians against it (at least in my country). But their stomachs were never empty, and for that reason it proved really difficult to make them understand that when hunger bites, everything else becomes a detail.

So sad, so true.










Post scriptum

Repeat after me: there will never be a Franco-German axis. And if you do not believe me, believe them!

This is Germany:



and this is France:


Not very similar indeed, but you should consider this as a richness, not as something to level out.

By the way, the harpsichord is Italian, and the harpsichordist as well. Europe has never coincided, and will never coincide, with the euro. 


(with many thanks to Patrick Lynch and Elena Marini...)

Mario? Ah Mariooo? De che stamo a parla'!?

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Cominciamo da due cose delle quali tutti parlano ma che nessuno conosce (inclusi tutti gli economisti e molti giuristi, temo).

L'articolo 2 degli Statuti della Bce (il SEBC è il "Sistema" Europeo delle Banche Centrali del quale fa parte la Bce che lo coordina):

 e le norme da esso richiamate: l'art. 3 del Trattato sull'Unione Europea (TUE):


e l'art. 119 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE):


Carta canta, villan dorme, sogna il Fogno europeo... e i banchieri lo depredano!

Notate i soliti dettagli. Secondo l'art. 119 TFUE la Bce, una volta assicurata la stabilità dei prezzi, ha l'obiettivo complementare di sostenere "le politiche economiche generali nell'Unione", e queste politiche si presume siano improntate agli obiettivi dell'Unione, cioè "piena occupazione e progresso sociale". Chi dice che la Bce non è come la Fed perché non ha un obiettivo di crescita è un facilone, uno che ha letto i Trattati sulle carte dei Baci Perugina, che sono poi la fonte dove molti hanno studiato il Gold Standard (mentre per quest'ultimo sarebbero forse più indicati i Ferrero Rocher).

Notate un altro dettaglio. Vedete un numero? Che so, 3.14, 3457294, 0.0005, 1, o magari

2%?


No, non lo vedete perché non c'è. E allora da dove arriva il 2% di inflazione del quale tanto si parla?

Da qui, come sa chi ha letto Il tramonto dell'euro, e sa la differenza fra leggere un libro e guardarlo. Dai, su, scrinsciottiamo anche questo:



Verbum domini.

Notate il farisaico ultimo paragrafo. Se ti preoccupa la deflazione, bello de zzio (era Duisenberg), dovresti semplicemente non definire regole asimmetriche, del tipo: "meno di x". Una regola simmetrica è "in media x su un periodo di riferimento", magari con un intervallo di confidenza. Altrimenti si capisce che quello che vuoi convogliare è l'idea che chi fa una deflazione competitiva è bravo (idea scontata in un'Europa a guida tedesca, va da sé: deflation's beauty is in the eyes of the bond holder...).

Notate che di regole simmetriche qualcuno aveva parlato.  Che un governatore ti dia ragione, non c'è che dire, so' soddisfazzioni...

Notate un altro (anzi, forse dato il livello bisognerebbe scrivere un'altro) paio di cosette.

L'obiettivo del 2% di inflazione non è in alcun trattato. Lo si dice a beneficio dei coglioni per i quali il problema è quello che è scritto o non scritto nei Trattati. Diceva Vivaldi che i numeri sono "per li coglioni". Lui si riferiva ai numeri del basso continuo (vi ricordo che ho una laurea triennale in basso continuo presa niente meno che a S. Cecilia, a proposito di CV), sottolineando il fatto che se sai l'armonia puoi armonizzare un basso anche non cifrato (qualcuno ribadisce piccato: "soprattutto i suoi", ma non è proprio così...). Io mi riferisco ai numeri dei trattati, sottolineando il fatto che se sai la storia, anche epidermicamente come me, capisci che laddove un Trattato è economicamente assurdo, quando l'economia fa il suo lavoro e il sistema salta, il giorno dopo con il sullodato Trattato ti ci netti le terga. Anche l'editto di Nantes era irreversibile, credo. E 'nfatti...

L'obiettivo è riferito all'Eurozona. Ergo, è perfettamente compatibile con la presenza di differenziali di inflazione persistenti, dei quali la Bce era perfettamente consapevole, ma sui quali non mi pare abbia particolarmente emesso warning di alcun tipo, nonostante siano essi, alla fine, ad averci messo in difficoltà (alterando la competitività dei paesi in assenza del meccanismo correttivo del cambio).

E certo che non emetteva warnings. Contro i differenziali di inflazione fra paesi membri, contro quei differenziali di competitività che alimentano le esportazioni al Nord e le bolle al Sud, la Bce non può far nulla, e se potesse far qualcosa lo farebbe visto che nessun Trattato le impedisce di agire, in condizioni di deflazione come quelle attuali.

Repeat after me: single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). Single currency does not mean single inflation (and you know it). 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Quindi, caro Mario: de che stamo a parla'?

Bella pe' tte, vado a TgCom24 (alle 10:30).

















Moneta unica e corruzione

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Partiamo da un dato. Il grafico sottostante riporta i paesi dell'Africa subsahariana, con un unico intruso (per memoria), in ordine di successo crescente nella lotta alla corruzione (cioè partendo dal meno efficace e scendendo fino al più efficace nel contrasto di questo odioso fenomeno):


L'indicatore preso è il Control of Corruption dall'edizione 2012 degli indici Governance matters  elaborati dalla Banca Mondiale, e il valore rappresentato è la media su tutti gli anni disponibili (dal 1996 al 2011). È probabile che alla pagina indicata troviate indicatori lievemente diversi, perché il progetto è sempre in corso di aggiornamento. Ho fatto il grafico con gli ultimi dati scaricati che avevo (quelli usati ad esempio nel Tramonto dell'euro), ma se qualcuno vuole invece farlo con gli ultimi disponibili mi fa un piacere. La Somalia è il paese più corrotto, il Botswana il meno corrotto (meno di noi).

In rosso sono evidenziati i paesi dell'Africa subsahariana dotati di moneta unica, una moneta unica che in pratica coincide con la nostra, come vi avevo spiegato qui.

Che ne dite? Occhiometricamente la moneta unica moralizza o no?

Ora vado a verbalizzare, poi parliamo di modelli, statistiche, del per come e del perché. Nulla di troppo difficile. Vi dico solo una cosa: come si fa a pensare che l'integrazione finanziaria, rendendo più facile indebitarsi, possa rendere i debitori più coscienziosi? Bisogna essere laureati alla stessa università di Giannino, vi assicuro, perché su qualsiasi rivista scientifica troverete valutazioni fortemente dubitative circa questa azzardata ipotesi.

A dopo...

Seconda puntata: un aneddoto

Una volta dovetti tenere un ciclo di seminari sulla convergenza macroeconomica nel meno corrotto dei paesi di cui sopra. Un giorno, come vi ho ricordato in altre occasioni, mi intrattenevo con una funzionaria delle Nazioni Unite, originaria niente meno che dello Zimbabwe (clic), e le chiedevo: "Ma cara, tu che sei esperta di questi paesi, mi spieghi come mai paesi tanto diversi hanno scelto di dotarsi di una moneta unica? Cosa può tenerli insieme, date le loro differenze strutturali e lo stress che la rigidità del cambio necessariamente procura, amplificandole?".

La risposta fu lapidaria: "Corruption".

In effetti, se ci fate caso, il paese meno corrotto è anche uno dei pochi che non ha petrolio da esportare (però esporta fagiolini), e quindi, come dire, il meno esposto a un certo tipo di comportamento predatorio da parte di lobby estere.

Scusate, qui le cose da fare sono tante, intento godetevi l'aneddoto, poi passiamo a parlare di economia...


La desinenza in "oni" in due grafici e un link

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Ragazzi, quanto vi scaldate! E che sarà successo mai! Mi pare di aver capito che il nostro amico, il dr Barisoni, quello dell'horror vacui, ha provato a fare la solita operazione mistificatoria, accostando il mio lavoro e la mia professione a quella del simpatico Donald (che in effetti è più collega suo che mio, ma non vorrei entrare in questo argomento).

E allora?

Che male c'è?

La mossa è prevedibile. Il dr Barisoni lavora in un organo di stampa che si avvale di analisti di vaglia, quali il dr Giannino, e ha come editore di riferimento il dr Squinzi, celebre per le sue affermazioni lievemente avventate sulle conseguenze della inevitabile fine dell'eurozona.

Siate però sereni nel giudizio.

Di tutti questi, alla fine, quello che si salva è proprio il nostro Oscar. Come ho sempre sostenuto, in quel caso la maggior responsabilità non era di chi aveva raccontato balle (lui), ma di chi ci aveva creduto (o fatto finta di crederci), cioè il nostro amico Sacripante, che peraltro, come sapete, io rispetto e stimo per tanti motivi che non potete capire (beati voi...) e per un paio che potete capire, cioè perché ha avuto l'onestà intellettuale di dire questo e questo. Ciò rende tanto più sorprendente la sua incapacità di vedere quello che era di palmare evidenza, cioè che Angelica non era vergine, pardon, Giannino non laureato, ma abbiate misericordia! Qui siamo in tanti a leggere libri senza figure. Nelle facoltà di economia capita solo agli storici, ai geografi, e a qualche matematico (di quelli che generalmente ridono dei modelli matematici dei miei colleghi, ma non voglio scoperchiare un altro vaso di Pandora). Quindi, che in certi luoghi manchi, come dire, quel minimo di sensibilità antropologica che consente ai colti di individuare ictu oculi un homo sanza lettere lo potremmo forse anche considerare un peccato veniale.

E il dr. Squinzi?

Eh, su, povero dr Squinzi, va capito anche lui! Voi direte: "Ma continua a ripetere come un disco rotto i risultati di uno studio datato, privo di solide basi scientifiche, e screditato dal fatto di essere in palese conflitto di interessi, visto che è lo studio di una banca svizzera che fa terrorismo sulla fine dell'euro suggerendo, subliminalmente, di mettere i soldi al sicuro... in Svizzera!"

Dai, su, tranquilli!

Intanto, come sapete, né Dio né i mercati pagano ogni sabato, ma quando pagano son soddisfazioni. E quindi lasciamo la povera UBS ai suoi problemi. D'altra parte, ora che la Svizzera si è stancata di imbottirsi di euro, stranamente nessuna banca svizzera pare abbia più ripetuto scemenze simili, no?

Poi, non è nemmeno tutta colpa del dr Squinzi se dice certe cose. Sapete bene che la stampa italiana le ha riportate in modo smaccatamente artefatto! Ci sono pezzi di giornalismo che lasciano dubitare dell'invenzione del pallottoliere, ma passons anche su questo.

Considerate poi il solito vecchio adagio: mal comune, mezzo gaudio! L'UBS era in conflitto di interessi fornendo analisi distorte sull'euro, e in fondo lo è anche il dr Squinzi, il quale, avendo delocalizzato buona parte delle sue attività (cosa lecita, non discuto), ha, per così dire, goduto due volte dei "privilegi" della valuta forte: una prima volta, quando è andato con i suoi begli euroni ballanti e sonanti all'estero a rilevare attività produttive in paesi dal costo del lavoro inferiore al nostro, e una seconda quando, da quelle lande, importa nei paesi ricchi, quelli con l'eurone, i suoi prodotti (per i quali, evidentemente, nei paesi dove ha delocalizzato c'è meno mercato che nell'Eurozona, stante che se paghi poco gli operai, quelli hanno pochi soldi per comprarsi prodotti ad alto valore aggiunto).

Un delocalizzatore esporta capitali per poi diventare un importatore delle merci che all'estero produce, ma non riesce a vendere. Non è così strano che la moneta forte gli sia amica! Certo, gli interessi degli importatori confliggono con quelli degli esportatori, di chi ha lottato per mantenere in Italia attività produttive e posti di lavoro. È una storia vecchia quanto il mondo, o almeno quanto Confindustria, e fa parte del capitalismo. Se una persona è disposta a passare sul cadavere di tante aziende per difendere la propria, sapete che vi dico: fa bene! Bravo! Bis!

(che dite, lo mettiamo un bel banner "attenzione ironia!" per quei patetici imbecilli dei marxisti dell'Illinois, o lasciamo perdere? Ma sì, lasciamo perdere: lasciamo che anche loro, come altri, si screditino da soli con i propri scomposti attacchi...)

Bisogna però vedere se ci riesce, e lì la vedo un po' dura. Bisogna convincere i danneggiati che l'euro li protegge, ed è ovviamente qui che entra in gioco il dr Barisoni...

Povero dr. Barisoni! Gli abbiamo già dato due brutte notizie: che l'euro sia insostenibile e vada quanto meno segmentato lo ha detto niente meno che Zingales. E che la crisi che viviamo sia stata premeditata in modo criminale lo ha detto niente meno che... Zingales! Di nuovo! Povero Barisoni... Lui fa il giornalista, quindi scrive, e chi scrive non ha tempo di leggere: se non lo so io! Del resto, lo diceva anche Gadda, pensate un po'. Quindi gli esprimo la mia più piena solidarietà (al dr Barisoni, non a Gadda, che non ne ha più bisogno, mentre io ho bisogno ogni giorno della sua, e posso averla, per questo motivo). 

Certo, mi direte, magari poteva essere un pochino più originale!

Questa storia "Bagnai = Donald"è passata di moda da quando il prof. Bisin, abbandonando le vette dell'astrazione scientifica, provò senza successo la strada del meschino attacco personale. Non andò benissimo. A chiarire al gentile collega che questa equazione non aveva alcuna radice reale intervenne niente meno che Fausto Panunzi:


(Che dite, lo sa Barisoni? No, secondo me non lo sa. Dai, diciamoglielo, diamogli un aiutino...)

Dr Barisoni, è lì, mi sente? Se mi sente, sappia che Fausto Panunzi, che con questo intervento la smentisce, all'epoca in cui scriveva queste parole era direttore del dipartimento di Economia in Bocconi.

Ooooops!

Eh, già...

Infatti con Fausto, e anche con Alberto, è nata un'amicizia. Perché sa, loro, forse perché hanno studiato, sono in grado di capire il valore e forse, anzi, certamente, anche di argomentare il disvalore degli argomenti che divulgo. Ad esempio, loro sanno (cosa che lei non sa, perché non può saperla: ma questa non è una critica, il suo lavoro è un altro, ho spiegato sopra qual è), loro sanno, dicevo, che gli argomenti che io divulgo sono assolutamente ortodossi (veda le parole del prof. Panunzi, e eventualmente chieda spiegazioni a lui, che è molto gentile), sono solidamente attestati nella letteratura economica (cosa che lei legittimamente ignora, il suo lavoro essendo quello di scrivere quello che ritiene di dover scrivere, certo non di leggere centinaia di articoli specialistici), e quindi, questi argomenti,non possono minimamente essere assimilati alle strampalate farneticazioni di Donald.

Chi lo fa ci strappa un sorriso, e quando lo fa in modo affrettato poi finisce così:


Oh, naturalmente da lei non mi aspetto una simile palinodia, ci mancherebbe. Non è certo mia intenzione metterla in difficoltà. Mi dispiace, fra l'altro, averle fatto notare che, come dire, non è stato poi tanto originale nel suo argomentare. Ma si sa, nella fretta...

Dirò di più: non è mia intenzione avere alcun contatto con lei, motivo per il quale la esorto a continuare tranquillo e sereno sulla sua strada. Se non voglio vederla in trasmissione, non voglio vederla nemmeno in tribunale! Quindi continui pure a dire che non sono un economista, che sono intellettualmente disonesto, et similia. Guardi: cosa ha detto esattamente non lo so e non mi interessa. Lei per me, mi perdoni, è solo uno dei tanti. Massimo rispetto, per carità, però, vede, se uno imbocca la strada che lei ha deciso di percorrere i casi sono due: o chi lo ascolta ha un minimo di cervello ed è informato, nel qual caso capisce che forse Panunzi ne sa più di lei; oppure chi lo ascolta è ignaro, e magari anche un pochino vittima della Natura matrigna, nel qual caso di quello che lui pensa mi interessa esattamente quanto di quello che lei dice: 0,00000 (sa, io sono uno preciso).

Aggiungerò però una piccola chiosa. Sopra ho spiegato la political economy del suo editore. È un importatore, quindi necessariamente la pensa in un certo modo. Forse varrebbe la pena di aggiungere un paio di grafici che spieghino la sua political economy, caro dottore, ovvero quali sono i moventi economici sottostanti a certe sue scelte che miei colleghi tanto autorevoli troverebbero azzardate.

Lo faccio con due grafici.

Questa è la quotazione del gruppo editoriale per il quale lei e il dr. Giannino lavorate:


così commentata da un mio lettore:

Per carità umana non metto il grafico di settore (benchmark) che da inizio 2013 ad oggi ha sovraperformato del +60% contro uno straordinario -10% (menodiecipercento) del mitico giornale rosapallido (pallido in tutti sensi).

Vede, qui siamo umani!

Questi invece sono i contatti mensili del mio blog:


Il picco di 600000 contatti è dovuto all'infelice uscita di un suo collega, che a marzo 2013 mi dette per grillino. Ma poveri giornalisti, che lavoro difficile il vostro... Certo, capire come stessero le cose era difficile, e per questo mi ero premunito a febbraio fornendo una lectio facilior, evidentemente troppo difficile per il suo collega. Il giornale per il quale lavorava (e forse ancora lavora) dovette rettificare, perché sa, lei mi capisce, il mondo è pieno di imbecilli, ce ne son perfino che danno retta ai giornalisti, e quindi, come dire, better safe than sorry...

Ma la prego, osservi le tendenze... Se lei fosse del mestiere, non avrei bisogno di farglielo notare: si vede una certa correlazione negativa. Tanto scende il vostro valore (in Borsa, beninteso), tanto aumentano i miei lettori. Va da sé che una correlazione non è un modello causale. Ma una correlazione così forte non è nemmeno casuale. Credo significhi che gli importatori stanno passando in minoranza, sa? Ne parli col suo editore, credo che un piano B serva anche a lui.

Ah, sì, quasi dimenticavo: avevo anche promesso un link. E così sappiamo con cosa fa rima Barisoni. Fa rima con volponi. Mi spiace tanto, ma proprio tanto, che lei non mi consideri un economista. Questa notte non ci ho dormito, ma lunedì mi consolerò ricevendo un premio che prima di me hanno ricevuto il presidente della Società Italiana degli Economisti, e Paolo Savona (per dirne solo un paio). Due persone che, a lei sembrerà incredibile, mi onorano della loro stima (rimasi molto sorpreso quando il prof. Quadrio Curzio mi saluto all'IEA di Lisbona, io umile ricercatore universitario, ma poi mi ricordai che uno dei miei primi articoli scientifici era stato pubblicato da Economia Politica, una rivista del Mulino che lui all'epoca dirigeva, e, fra l'altro, era stato anche adottato dal prof. Pedone come testo per il suo corso di Scienza delle Finanze II alla Sapienza. Chissà, forse anche La più grande bufalaè stata adottata in qualche corso universitario... magari di scienze agrarie!). Su, via, stia sereno...

Non è bello vedere un onesto professionista come lei rosicare come un caimano. Nolo acerbam sumere, nondum matura est, diceva il primo dei Barisoni...

L'economia dubito che riuscirei a insegnargliela (e mi par di capire, scusi se da docente glielo faccio notare, che bisogno ce ne sarebbe: quanta superficialità in certe analisi dell'inflazione!), ma accetti una lezione di stile: mi ignori, come io ho finora ignorato lei, o, se proprio vuole attaccarmi, ci metta un minimo di impegno, di gusto, di divertimento. Non le chiedo di riuscire a farlo in modo argomentato come ho fatto io in questa breve nota: modestamente lo nacqui, e magari lei no, chissà.

Ma almeno cerchi di usare argomenti non dico meno livorosi e beceri, ma più originali! Farà un grande favore a se stesso, e io a lei ci tengo.

Buon proseguimento, e ci vediamo, come le promisi a suo tempo, dopo la fine del regime. Sono sicuro che per allora il suo tono sarà cambiato.

Yours.



(ah, si ricordi di quella cosina circa i pagamenti di Dio e dei mercati. Magari, data un'occhiata al grafico, le potrebbe essere utile per elaborare un suo personale piano B...)

(...scusate: mancava la morale della favola...)

No comment (le conversioni e i giornalisti: non fa rima o forse sì).

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Questo è il Fabrizio Goria prima maniera:




e questo è il Fabrizio Goria seconda maniera (oggi):



Questo è il primo post del mio blog (ma potrei tranquillamente risalire al 2010).

Su Twitter ho dovuto bloccare Goria per il suo insulso trollaggio:


Si sa, l'unico umorismo accessibile agli euristi è quello involontario. Mancanza di letture, poverini: tutti squadra del cuore e distintivo. Ultimo romanzo letto? I Promessi Sposi al liceo prima dell'interrogazione...

Ora, però, in effetti il precursore è lui. Il buon Goria, che mi dileggiava in tutti i modi possibili, cerca di rifarsi una verginità dicendo quattro anni dopo le cose che dicevo quattro anni prima, e inaugura così la stagione delle conversioni, che, guarda caso, fanno rima con Barisoni.

E la cosa fantastica è che questa gente che fino a ieri ha mentito non per cattiveria, ma per incapacità tecnica di accedere al dibattito scientifico e per squallido conformismo ideologico, soffocando così un dibattito del quale questo paese aveva ed ha terribilmente bisogno, e rendendosi quindi complice, all'ingrosso e al dettaglio, del furto di democrazia che abbiamo subito, non si è accorta di un dettaglio.

Quale?

Un dettaglio assolutamente trascurabile: il web esiste e non dimentica.

E quindi, le conversioni, oltre che con Barisoni, se non accompagnate da adeguata autocritica, rischiano di far rima anche con qualcos'altro...





P.s.: guardate il nostro dibattito che segue questo post. Poi guardate questa roba qui:



La differenza si percepisce, e spiega molto bene perché siamo nella situazione nella quale siamo. Per oggi ci siamo divertiti abbastanza.

Pp.Ss.: Ok, capisco che siate incazzati per i motivi che enuncia molto bene qua sotto Celso. Però lasciamo la tifoseria agli altri. Non c'è bisogno di creare casi inutili, come dice molto giustamente qualcun altro qua sotto (scusate, non lo vedo). Ho parlato con Fabrizio (naturalmente al telefono ho risposto "Francesco!") e ci siamo chiariti un po' le idee. Chi ha buona volontà avrà tempo e occasioni per dimostrarlo.

Chi vince e chi perde...

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...vuoi vedere che forse alla fine qualcuno si è ricordato che:

Non negabis mercedem indigentis et pauperis ex fratribus tuis sive advenis, qui tecum morantur in terra intra portas tuas, sed eadem die reddes ei pretium laboris sui ante solis occasum, quia pauper est, et illud desiderat anima sua; ne clamet contra te ad Dominum, et reputetur tibi in peccatum.
(Dt. 24, 14-15)

Non è mai troppo tardi, neanche dopo trent'anni: ita gaudium erit in caelo super uno peccatore paenitentiam agente quam super nonaginta novem iustis, qui non indigent paenitentia (e questo invece è Luca).

Ciò posto, e auspicando che il mondo cattolico cominci realmente a interrogarsi sul significato sociale e umano, e sulla compatibilità non dico con il Nuovo, ma almeno con il Vecchio Testamento, del bel sistema messo su da uno dei suoi campioni, se siete da quelle parti e passate, a me fa piacere.


Pax et bonum.








(...ovviamente, data l'area geografica, tendererei a sconsigliare la partecipazione dei soliti squilibrati sempre pronti a intervenire al grido di "ma voi dove eravate, ma cosa avete fatto!?" Forse attacca con gli ortotteri, che fra l'altro se la son cercata, ma, ve lo dico prima, coi gesuiti vi conviene lasciar stare: avete già perso. Loro c'erano prima di voi, e ci saranno anche molto, ma mooooolto dopo di voi. Andate all'osteria, che è meglio... o forse no! Invece del solito "ma che fa Grillo?", un più pregnante "ma che fa il Padreterno?" forse ci starebbe bene. Attenti, però! Correreste il rischio di venire fulminati...)

Il mistero della sinistra scomparsa

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(da Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale, ricevo e volentierissimo pubblico...)





1. Il mistero. Nessuna componente del PD sta mettendo al centro del suo programma  politico delle proposte per uscire dalla crisi. La cosa è tanto più strana, almeno a prima vista, perché nella cultura economica della sinistra queste proposte invece non solo esistono, ma sono ovvie; e non solo sono ovvie, ma sono ancorate molto solidamente alla teoria e alla storia economica. Questa clamorosa assenza deve essere spiegata. Non è sufficiente invocare la stupidità, la corruzione e l'ignoranza dei politici del PD, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti.  Perchè come vedremo essere ignoranti e stupidi può essere non tanto un caso quanto una scelta, come lo è ovviamente essere corrotti.

Cominciamo però dalle ovvietà storiche ed economiche. Eccole:

1. Non credo si sia mai dato il caso di una economia capitalista non minuscola che si sia sviluppata puntando solo sull'efficienza dei mercati. È sempre (o forse quasi sempre) stato necessario un massiccio intervento dello stato.  Questo vale, a fortiori sul piano teorico e con tutta evidenza su quello storico, per l'uscita da situazioni di gravi crisi[1].

2. L'intervento dello stato a fini espansivi richiede l'uso della politica monetaria (espandere l'offerta di moneta e/o operare sui tassi di cambio) oppure della politica fiscale (espandere il debito pubblico e/o trasferire redditi mediante politiche redistributive); oppure, naturalmente, di entrambe.

3. Una politica monetaria espansiva è resa impossibile dalla partecipazione all'euro; una politica fiscale espansiva dal livello del debito pubblico. Un trasferimento di reddito sarebbe possibile, ma è evidentemente un tabù. Su quest'ultimo punto torneremo.

4. Quindi non si può uscire dalla crisi. Anzi, la crisi è destinata ad aggravarsi, perché ogni anno lo stato sottrae alcune decine di miliardi al circuito economico per pagare gli interessi sul debito. "Sottrae" perché la maggior parte del debito è sottoscritto dal sistema bancario internazionale; solo per un settimo circa è in mano alle famiglie italiane. Ciò significa che gli interessi pagati non stimolano la domanda italiana se non in minima parte, a differenza per esempio del Giappone, dove il debito è quasi tutto in mano a cittadini giapponesi, e quindi il pagamento di interessi si traduce quasi solo nella trasformazione di domanda pubblica in domanda privata.

Se preferite: chi nega quanto sopra sostiene che è possibile uscire dalla crisi (o addirittura che lo stiamo già facendo) riducendo la spesa pubblica, senza fare alcuna politica monetaria, e pagando ogni anno una tassa di alcune decine di miliardi senza che in cambio ne venga quasi nulla.

2. Gli indizi. Dato che nessuno può sostenere quanto sopra in buona fede, abbiamo un primo indizio per risolvere il mistero: in realtà il PD non vuole uscire dalla crisi. Ma perché? È evidente che chi avesse il coraggio di proporre delle soluzioni serie alla crisi avrebbe un cospicuo vantaggio elettorale; e tanto più se queste soluzioni implicassero una seria politica redistributiva ai danni di una minoranza e a favore di una maggioranza. I ricchi in Italia non sono mai stati così ricchi: difficilmente una politica di perequazione sarebbe impopolare. Senza entrare in dettagli, un'imposta dell'1% sulla ricchezza finanziaria dei ricchi basterebbe a risolvere il problema della povertà. Non solo non lo si fa; non lo si dice nemmeno. Abbiamo allora un ulteriore indizio per risolvere il mistero: non si vuole redistribuire il reddito mediante politiche fiscali.E poiché è ovvio che questa sarebbe una politica possibile e popolare, è evidente che il PD come partito di governo è disposto a rinunciare a massimizzare il consenso. A riprova di ciò, il colossale trasferimento di voti ai 5 stelle non ha destato particolari preoccupazioni.

Gli indizi cominciano ad assumere una direzione precisa. È evidente che se un partito politico non ha più come obbiettivo quello di massimizzare i voti è perché ne ha qualche altro. Quale può essere? Qui salta fuori un altro indizio. Abbiamo detto che i ricchi non sono mai stati così ricchi. Il nocciolo della nuova classe ricca sono i padroni della finanza. Una volta il sistema finanziario funzionava sostanzialmente così: un imprenditore aveva bisogno di soldi per investire. Gli operatori finanziari glieli imprestavano. Se l'impresa andava bene, l'imprenditore rimborsava il debito più gli interessi. Se andava male falliva e i soldi prestati erano perduti.   

Negli ultimi decenni si è creata un'enorme massa di titoli finanziari, praticamente senza rapporto con l'economia reale, i cui titolari vogliono essere pagati anche se l'economia reale non rende, e hanno il potere necessario per esigerlo. Non è solo potere di ricatto ("too big to fail"). È anche potere vero e proprio: i padroni del Monte dei Paschi hanno sperperato miliardi; ma ogni euro sperperato da qualcuno è un euro guadagnato da qualcun altro. E quei miliardi erano sicuramente abbastanza per creare un enorme sistema di potere. Non solo Mussari e compagni: un sacco di gente ha bisogno che i crediti del sistema bancario vengano pagati. È una lotta di classe. Da una parte i padroni della finanza, e i loro vassalli, vogliono che l'economia reale rimborsi i loro crediti e paghi i loro interessi; dall'altra l'economia reale, dato che è in crisi profonda (sopratutto in Italia) deve sottrarre queste cifre ad altri usi, come le pensioni, i salari e i servizi pubblici. Ciò naturalmente crea ulteriore depressione, e così via: come in Grecia, se vincono i primi ci si fermerà solo quando non ci saranno più ossa da spolpare.

Quindi: ci sono delle lobbies enormemente potenti ed enormemente ricche che vogliono che gli italiani paghino col sudore e col sangue i loro crediti. Un sacco di gente vive dei profitti (meglio, delle rendite) di costoro. Eppure - ecco il nuovo indizio - il partito democratico non denuncia questa situazione.

Mettiamo allora insieme gli indizi. Il partito democratico non vuole uscire dalla crisi; dalla crisi si esce solo contrastando il potere del capitale finanziario (per esempio uscendo dall'euro, il che svaluta il debito e rilancia le esportazioni, oppure congelando il debito o facendo default, il che riduce i pagamenti per interessi); il capitale finanziario è potentissimo; il partito democratico ha obbiettivi diversi dal massimizzare il consenso. La conclusione sembra chiara: il partito democratico è stato compratodal capitale finanziario. Non è detto che questo sia sempre stato fatto con il vecchio metodo delle valigette piene di denaro. Fra questo estremo e la perfetta buona fede ci sono infinite gradazioni, e i dirigenti del PD, a partire dal Presidente delle Repubblica, hanno ampiamente dimostrato di sapere venire a patti molto bene con la loro coscienza. Se un dirigente del PD vuole pagare fior di quattrini per degli inutili F35 potrà essere perché è stato pagato, o perché è riuscito a convincersi che servono davvero. Sono affari suoi. La sostanza non cambia.

3. Indizi contrari. Ci sono però anche, apparentemente, degli indizi contrari. Vedremo che non sono attendibili. Il primo è risibile, ma viene spesso citato: e cioè che la base del PD è composta perlopiù da persone per bene. L'ovvia obiezione è che la base del PD ha ben poco a che fare coi suoi vertici. È un fenomeno noto e comune. Durante l'ultima guerra molti preti cattolici si comportarono molto bene, ma la posizione del Vaticano fu molto ambigua, a dir poco. "Mussolini deve essere informato" era un atteggiamento diffuso fra i fascisti onesti. Io stesso sono abbastanza vecchio per avere appoggiato la politica estera sovietica in quanto militante nel PCI. Il punto di svolta per me è stata l'invasione della Cecoslovacchia, ma molti militanti di base accettarono di considerare traditori coloro per i quali era stato, giustamente, quella dell'Ungheria.

Il secondo controindizio è la crisi  che investe l'organigramma del partito dalla base (esclusa) in su, compresi i massimi vertici. A prima vista sembra difficile che un partito così pasticcione e pasticciato possa essere un buon strumento nelle mani di chi l'ha comprato. Nuovamente però la storia ci insegna che la contraddizione è solo apparente. Per fare qualche esempio, la lotta fra satrapi nazisti ha raggiunto il suo massimo livello di violenza nel periodo fra il 1935 e il 1939, quando il potere era saldamente nelle mani di Hitler. La lotta politica americana non è mai stata così becera come nel periodo di massimo fulgore del pensiero unico. Le tensioni che stanno esplodendo adesso nella chiesa cattolica si sono accumulate sopratutto durante il papato di Woytila, sotto il quale la potenza della chiesa nei confronti del mondo secolare ha raggiunto un livello altissimo. E si potrebbe continuare. Ma la generalizzazione è semplice: la lotta fra strapi di partito diventa violenta (nel caso del PD la si potrebbe definire, con Karl Kraus, una lotta disperata ma non seria) quando la ricollocazione del partito stesso apre da una parte prospettive ricchissime per chi sa posizionarsi bene, e dall'altra una tragica fine per chi sbaglia scelta. Lo slogan del festival nazionale del PD a Genova era "perché l'Italia vale". Non deve essere stato facile trovare una frase così stupida e soprattutto così priva di significato: ma questa mancanza indica appunto quanto sia grande la paura di spaventare qualcuno che domani potrebbe essere vincente.

Il terzo controindizio è di gran lunga il più importante, e anche quello che a prima vista appare il più convincente. Molti esponenti intermedi del PD sono seri professionisti, che fanno il loro mestiere e non sono corrotti, o pensano di non esserlo. Anzi, non hanno tempo da perdere con tutte queste beghe politiche. Ci sono comuni da gestire, appalti da assegnare, concorsi da indire e da effettuare, insomma tutta la vita politica normale. Se il partito ha deciso di comprare gli F35 a lui spetta il compito di amministrare i fondi che ne derivano alla sua istituzione. La decisione ormai è presa. Chi riceveva soldi dal Monte dei Paschi non aveva né tempo né interesse a chiedersi da dove venivano.

Ma supponiamo che invece se lo fosse chiesto. Cosa cambiava? Se avessero dato l'allarme avrebbero ottenuto solo di perdere il posto, senza in realtà produrre nessun cambiamento nel sistema. Meglio tacere. Ora, in realtà c'era, e c'è, una soluzione ancora migliore del tacere:  non sapere. È molto più rapido e sicuro non porsi le domande piuttosto che dovere gestire delle risposte scomode. Essere ignoranti e apparentemente sciocchi non è quindi necessariamente una caratteristica antropologica (anche se naturalmente in molti casi uno sciocco è più utile di un non sciocco): può benissimo essere una scelta.

A questo propositosi può ricorrere con fondatezza al concetto di egemonia. Dato un certo sistema di potere e una certa "cultura" economica che ne consegue, è perfettamente possibile per un politico professionista considerarli normali, senza porsi problemi riguardo alle loro conseguenze più generali. L'ignoranza diventa buon senso; la limitatezza delle vedute diventa realismo; e così via. Anche qui la storia è piena di esempi: il sistema di potere Craxi-Andreotti-Forlani era appunto un sistema di potere, "normale" per chi vi operava, come ha coerentemente e nostalgicamente ricordato Fassino non molto tempo fa. Così come c'erano molti preti coraggiosi e onesti, in una chiesa che appoggiava il fascismo europeo c'erano anche molti vescovi che si occupavano con dedizione all'organizzazione della chiesa in tempi tanto difficili; e che ragionevolmente ritenevano di non avere tempo di occuparsi dei rapporti fra il papa e Hitler, e che comunque questi non  erano affari loro. La loro miopia non può però in alcun modo essere considerata una prova della correttezza della politica della chiesa.

Una previsione di questa ipotesi, cui assistiamo con tutta evidenza e che quindi la suffraga, è la tragica scomparsa del livello reale dei problemi dal dibattito politico. I dirigenti del PD parlano alternativamente (per esempio) di "Europa dei popoli" o di funerali di Priebke (ottobre 2013), passando da livelli stratosferici a livelli terra terra e viceversa,  e saltando il livello in cui la gente normale vive e soffre,.

4. Conclusioni.  Parafrasando Sherlock Holmes, "quando tutte le ipotesi assurde devono essere rifiutate, allora rimangono solo quelle plausibili."  È molto plausibile che il PD si sia venduto ai padroni, sia pure a padroni tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo, e le obiezioni che si possono fare a questa ipotesi non sono convincenti. Qui però si apre un altro discorso: perché anche SEL, l'unico partito di sinistra che rimane, dimostra una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare per uscire dalla crisi? Voglio sperare che si tratti solo di ignoranza e di inadeguatezza. Ma non ne sono sicuro.


[1]Qualcuno potrebbe citare l'esempio del Regno Unito di  Tony Blair. A torto: l'espansione dell'economia inglese si è accompagnata ad un consistente aumento dei dipendenti pubblici. Erano 5.221.000 nel 1999, e sono passati a  6.276.000 nel 2010 (e già che ci siamo, in Italia sono meno di 4.000.000, e in calo). Dati BIT.



(Siamo sempre meno soli. Non ho nulla da aggiungere, se non che SEL è peggio del PD, come il Front de gauche è peggio del Parti socialiste. Quando lo dicevo non mi credevano, forse perché non mi ascoltavano. Spero abbiano ascoltato questo - non ancora noto all'epoca in cui l'articolo di Guido è stato scritto.)

I lettori di copertine e il contenuto dei libri

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Ieri sono stato a Zombia. Il giorno prima avevo incontrato Olli Rehn alla sede dell'IDV, ma di questo parliamo un'altra volta, se vi va. Son tornato da Zombia con la nota sensazione. Ma questa volta ero ancora più amareggiato, perché le persone che avevo davanti si dividevano sostanzialmente in due, come accade: quelle che avevano capito, e che quindi provavano una gioia feroce nel sentirmi aggredire con una virulenza oltre il limite dell'insulto i luoghi comuni della sinistra "critica", e quelle che non avevano capito, e che non capiranno mai, per le quali quindi nessuna shock therapy sarà mai sufficiente, e che continueranno a pensare che il problema sono i cinesi, o l'impatto ambientale, e che comunque l'euro non c'entra perché il capitalismo da 70 anni...

Settanta anni? Ma perché il numero sette è così suggestivo? Devo trovarmi un buon testo di antropologia...

Benaltrismi vari, che non è il caso di confutare qui (avendo noi già illustrato ad abundantiam il fatto che il Viale (Guido) del tramonto porta all'alba dorata), esposti o da rispettabili anziani, che suppongo una volta fossero comunisti, o da volenterosi giovinetti e giovinette, che di questo passo comunisti non lo saranno mai, ma il problema, in entrambi i casi, è loro.

L'amarezza, però, aveva un'altra causa.

Io, in fondo, non ero lì per parlare a loro, che, fra l'altro, nel loro partito contano poco, ma per parlare al loro capo, che, fra l'altro, non conta per niente, e lo ha dimostrato sottraendosi ad altre occasioni di incontro. Ma di lui si sta già occupando la SStoria, nella forma del matrimonio mistico fra il Berlu e il Renzie per l'adozione del modello "spagnolo", che cancellerà qualsiasi velleità dei partiti minori di affermarsi con voce indipendente. Er Nutella avrebbe dovuto ascoltarmi quando era il momento, avrebbe dovuto guardare alla parabola del Front de gauche, punito dagli elettori per il suo tradimento, anziché parlarmi un anno dopo di quello che aveva portato Mélenchon al fallimento un anno prima.

Ma il punto è che simili velleità di affermazione, di indipendenza, non esistevano! Non mi faccio certo illusioni! Perché Tumulazione Comunista non si è impegnata seriamente in un discorso critico sull'Europa? Ma è chiaro! Perché si sarebbe messa di traverso al PD, a questo PD. E perché invece ha preferito fargli da utile idiota, come Mélenchon ha fatto in Francia con il Partito Socialista? Ma perché così ha potuto continuare a spartirsi con il PD la gestione della municipalizzata x del paesello y, la giunta comunale di Caccavella di Sotto, l'AMA di Sassate sul Membro, l'ASL di Casal Pustolese... I partiti, si sa, sono articolati sul territorio, e sul territorio vivono. Ora, è vero che il territorio de cuiusè territorio italiano, ma prima viene il territorio e il potere che si ha su di esso, e poi l'interesse del paese, per non dire della nazione (perché se lo dici sei fascista).

As simple as that.

Le persone che avevo di fronte erano per lo più vittime di questo tradimento consumato per meschini interessi di bottega, e non erano certo loro il bersaglio della mia rabbia. Ma la rabbia c'era, e credo si veda da queste poche slide che sottopongo alla vostra attenzione:













Eppure io ai marZiani lo avevo detto: "Sentite, dividiamoci il lavoro: voi fate il vostro, e io faccio il mio, ma non venite a farmi le lezzzzioncine, perché poi se mi metto a leggere i vostri sacri testi, finisce male per voi..."

E infatti...

Era una facile previsione. Chi fa ricerca, o scienza, o arte, sa bene che difficilmente la vera ricerca, la vera scienza, la vera arte, si discostano dal famoso buon senso del quale parla Cartesio. Come si può pensare che essere governati dalla Bce renda i proletari più capaci di organizzarsi? Lo scopo del gioco, per la Bce, è questo:





ed è stato pienamente raggiunto, con la complicita delle sullodate élite corrotte di pseudosinistra. I marZiani dovrebbero avere profondità storica, dovrebbero conoscere le dinamiche delle aggressioni imperialistiche del "centro" alla "periferia", dovrebbero - mi dicevo - capire che queste aggressioni non si risolvono rendendo la periferia incapace di difendersi... Era una mia supposizione. Siccome Marx è un genio (giudico dai risultati: è passato alla Storia, cosa che non capiterà a Ferrero), non può essere un imbecille, e quindi non può (pensavo, da ignorante) aver disconosciuto l'esigenza che le classi subalterne hanno di confrontarsi prima con i propri padroni, di raggiungere un certo grado di emancipazione prima di poter avere gli strumenti culturali e negoziali per potersi coordinare a livello internazionale.

È talmente ovvio!

Ora, la citazione dal Manifesto me l'aveva segnalata uno di voi, tra l'altro anche dicendomi che era nel Manifesto, cosa che però non avevo notato. Ieri l'ho googlata (sono anche figlio del mio tempo), e ho letteralmente trasecolato nel rendermi conto che l'affermazione che "la lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale"è in un libro che tutti quelli che accusano me, o Porcaro, o magari (non so) anche Boghetta di fascismo, perché parliamo di interesse nazionale, non possono non aver letto!

E invece la tragica realtà è questa: non l'hanno letto! Ne hanno letto solo la copertina, dove, siccome c'è scritto "di tutti i paesi", deducono che la lotta deve essere fatta unendo prima i proletari di tutti i paesi, e poi andando tutti insieme a casa del capitale internazionale, come vi ho spiegato qui.

E notate: prima di parlarvi del trotzkista e del vandeano non avevo letto il Manifesto, perché sono ignorante, ma ero arrivato, su questo punto alle medesime conclusioni. Sono un genio? Sono un marxista senza saperlo? Chissà, forse, magari, lo dirà il tempo. Sicuramente sono una persona di relativo buon senso, più di altri, e infatti io cresco e loro calano. Come sempre, i fatti sono il miglior giudice delle intenzioni.

Lo ripetiamo? Il capitale nasce internazionale, e il proletariato non lo diventerà mai. Quindi è opportuno che si attrezzi per fare i compiti a casa. Full stop.

Ma oltre alla scoperta dell'acqua calda, la solita (ovvero che posizione euriste, anche a sinistra, possono essere difese solo da persone ignoranti o in malafede - or both), contribuiva alla mia acredine il disprezzo per gli ignavi che continuano a liquidare il lavoro che abbiamo fatto qui come "basta che usciamo e tutto si risolve". L'argomento del tubetto e del dentifricio accomuna Ferrero a Boldrin, e l'argomento "Bagnai dice che basta uscire" accomuna Ferrero a Bisin. È in buona compagnia, e a noi piace ricordarlo così.

E allora ricordiamolo, ai bischeri per i quali "Bagnai la fa facile", cosa c'è scritto nel Tramonto dell'euro. Non tutto, certo, perché c'è molto, ma ricordiamo almeno un paio di cosette:

Dal "Tramonto dell'euro", p. 277 e segg.:



E dopo che si fa?

Proviamo allora a unire i puntini.
Questa crisi richiede un deciso cambio di paradigma, che è fuori dalla portata di chi si ostina a difendere l’esistente, per difetto etico (collusione con il potere, incapacità di ammettere un errore), o politico (incapacità di immaginare un cambio di rotta senza sopportare enormi costi in termini elettorali). Il nuovo paradigma, evidentemente, deve muovere dal superamento degli errori del vecchio, e da una percezione chiara, e articolata per priorità, dei problemi che abbiamo di fronte. Problemi, giova ricordarlo, che quando non sono stati creati, non sono stati nemmeno risolti dall’entrata nell’euro. Problemi, va anche detto, che non sono tutti alla nostra portata, né come singoli, né come collettività nazionale. Tuttavia se prima non si acquisisce una consapevolezza, è impossibile proporre un’azione politica tale da coinvolgere altri soggetti (siano essi il vicino di casa, o altre nazioni europee). L’agenda di quello che si può fare parte anche da una visione costruttiva, e non scaltramente distruttiva, di quello che non si può fare, o non da soli, o non adesso.
Il quadro sopra delineato chiarisce che l’uscita dall’euro, di per sé, non risolverebbe tutti i problemi. Ma questo nessuno potrebbe pensarlo, nessuno l’ha mai né creduto né detto né in Italia né altrove. Le analisi dei possibili percorsi di uscita dall’euro abbondano e sono facilmente consultabili su internet. Da inventare c’è veramente poco, e nessuna fra le analisi proposte, che esamineremo in dettaglio, considera l’uscita dall’euro come risolutiva. Chi sostiene il contrario è disinformato o in cattiva fede.
Se abbiamo unito bene i puntini, l’agenda mi sembra sia evidente: bisogna smontare pezzo per pezzo le istituzioni partorite dai paradigmi fallimentari che hanno messo in crisi la nostra economia e soprattutto la nostra democrazia, seguendo quattro linee guida:
  uscire dall’euro, come affermazione di sovranità e di democrazia, riprendendo il controllo della politica valutaria;
  ristabilire il principio che la Banca centrale è uno strumento del potere esecutivo, e non un potere indipendente all’interno dello Stato;
  riprendere il pieno controllo della politica fiscale, non più costretta ad agire in funzione prociclica (cioè a rispondere alle crisi con tagli);
  adottare, nella misura consentita dagli atteggiamenti dei partner commerciali, e propugnare nelle sedi istituzionali, una politica di scambi con l’estero basata sul principio che squilibri persistenti della bilancia dei pagamenti, quale ne sia il segno, cioè siano essi surplus o deficit, devono essere simmetricamente combattuti, secondo il principio che abbiamo definito dell’External compact.
Queste quattro linee guida hanno una serie d’implicazioni. Precisiamo subito le più importanti.
Riprendere il controllo della politica valutaria significa, in primo luogo, lasciare che il tasso di cambio nominale torni a un valore più allineato con i fondamentali dell’economia. Per l’Italia, oggi, ciò implica una svalutazione non catastrofica, di un ordine di grandezza verosimilmente inferiore a quello sperimentato dalla lira dopo la crisi del 1992, o dall’euro nei primi due anni della sua introduzione. In nessuno di questi due precedenti storici l’Italia è stata devastata dall’iperinflazione. Discuteremo fra breve, razionalmente, quale sarebbe l’impatto di questo provvedimento sul nostro tenore di vita. Ma riprendere il controllo della politica valutaria significa anche rientrare in possesso di uno strumento che consenta di difendersi da shock esterni, siano essi determinati da crisi economiche, siano essi il risultato di politiche deliberate di aggressione commerciale (nelle pagine precedenti abbiamo visto esempi dell’uno e dell’altro caso).
Riprendere il controllo della politica monetaria significa:
  rifiutare il dogma dell’indipendenza della Banca centrale, e quindi l’articolo 104 del Trattato di Maastricht, il quale al primo comma recita:

     È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Bce o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali nazionali”), a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Bce o delle Banche centrali nazionali.

    Se ciò comporti un’uscita dall’Unione, o solo una sospensione dell’applicazione del Trattato, è materia controversa, la cui soluzione dipende comunque dall’atteggiamento delle controparti europee (ne parleremo più avanti). Certo, alla luce di quanto abbiamo detto finora, l’Italia, se intende difendere i valori fondanti della propria Costituzione, non può più permettersi di aderire a un progetto d’integrazione continentale fondato sul principio antidemocratico della costituzione di un “quarto potere” monetario indipendente. L’insofferenza crescente nelle sedi internazionali verso questo principio e verso l’ideologia ad esso sottostante potrebbero consigliare atteggiamenti interlocutori alle controparti europee;
  rivedere la riforma bancaria del 1994, ripensando il concetto di banca “universale” o “mista”, di derivazione tedesca, da essa introdotto, e ristabilendo la separazione delle funzioni fra banca commerciale e banca d’affari, sancita in Italia dalla legge bancaria del 1936. Quest’ultima si ispirava al Glass-Steagall Act del 1933, che aveva riformato il sistema bancario statunitense smantellando i meccanismi che avevano fomentato la speculazione borsistica prima della crisi del 1929. Oggi numerosi commentatori (ad esempio, Stiglitz, 2012) attribuiscono all’abrogazione del Glass-Stegall Act una responsabilità diretta nella crisi finanziaria statunitense, e nei Paesi anglosassoni è animato il dibattito sul cosiddetto ring fencing (separazione delle funzioni).[1]
  reintrodurre il “vincolo di portafoglio”, cioè l’obbligo per le banche di acquistare titoli di Stato fino a una certa quota del proprio attivo. Questa norma, introdotta nel 1973, aveva lo scopo di contenere il costo del debito pubblico, favorendone il collocamento. Essa venne abrogata nel 1983, “anche grazie all’incessante pressione di Mario Monti” (Zingales, 2012). Andreatta (1991) ricorda che il progetto complessivo di divorzio prevedeva la “costituzione di un consorzio di collocamento tra banche commerciali”, ma che “i tempi non erano maturi per affrontare questi aspetti e la Banca d’Italia preferì procedere solo sul nuovo regolamento della sua presenza nelle aste”. Prevalse insomma la “linea Monti”, che, come sempre, aveva motivazioni ideali “alte” (favorire l’efficienza allocativa del mercato), e conseguenze politiche più spicciole (orientare il conflitto distributivo). Vedremo che la reintroduzione di un simile vincolo viene data per scontata da tutte le proposte più sensate di smantellamento dell’euro, provenienti sia da economisti di sinistra come Sapir (2011b), sia da economisti espressione della comunità finanziaria come Bootle (2012).
Riprendere il controllo della politica fiscale significa evidentemente ripudiare gli obiettivi di pareggio di bilancio e di rientro coattivo del debito verso soglie prive di particolare valore economico, come quelle stabilite dal Fiscal compact. Ciò posto, la politica fiscale dovrebbe, nel breve periodo, stimolare l’economia attraverso una politica di piccole opere volte:
  alla riqualificazione del patrimonio pubblico (edilizia scolastica, patrimonio artistico e archeologico, eccetera);
  alla messa in sicurezza del territorio (viabilità locale, monitoraggio e gestione del rischio idrogeologico, eccetera);
  all’integrazione e riqualificazione degli organici della pubblica amministrazione, stabilizzando le posizioni precarie, normalizzando i percorsi di carriera e le procedure di reclutamento.
Queste misure devono avere come obiettivo complementare quello di rilanciare l’occupazione, riportando il tasso di disoccupazione dall’attuale 10 per cento sotto al 6 per cento, e riattivando il tessuto economico del Paese, tramite la valorizzazione del tessuto delle piccole e medie imprese.
Nel medio-lungo periodo, la politica fiscale dovrebbe finanziare e gestire misure che favoriscano la crescita sostenibile e la competitività del Paese, da orientare secondo i seguenti assi prioritari:
  definire le linee di un piano energetico nazionale che affronti il tema del contenimento degli sprechi e dell’incentivazione delle energie rinnovabili, adeguando il Paese alle best practices europee, con l’obiettivo minimo di rispettare l’obiettivo definito dalla strategia europea 20-20-20 (parlamento europeo, 2008), rispetto alla quale l’Italia si trova in ritardo (Deutsche Bank, 2012), e l’obiettivo strategico di ridurre la dipendenza da fonti fossili, che vincola la crescita del Paese;
adeguare, anche in questa ottica, gli investimenti in istruzione e ricerca al livello dei partner europei, portando la spesa in ricerca e sviluppo dall’1 per cento al 2 per cento del Pil, riaffermando il ruolo chiave dello Stato nell’incentivazione e nella tutela della ricerca fondamentale;
  recuperare il digital divide (ritardo nell’uso delle tecnologie digitali) che separa l’Italia dagli altri Paesi industrializzati e ne penalizza la crescita, adeguando il Paese ai requisiti dell’Agenda digitale europea (Unione europea, 2012c; Messora, 2011);
  adeguare la dotazione infrastrutturale del Paese, con particolare riguardo alle reti di trasporto locale;
  promuovere una riforma strutturale della pubblica amministrazione volta all’abbattimento dei costi della politica e della corruzione, incidendo in particolare sulla disciplina delle società a partecipazione pubblica (disciplina delle nomine, ripristino dei controlli di legittimità sugli atti, eccetera), e su quella delle autonomie locali attuata con la riforma del Titolo V della Costituzione (Barra Caracciolo, 2011).


[1]. La Commissione indipendente per la riforma del sistema bancario, nominata dal governo britannico, ha emesso nel giugno 2012 un libro bianco (Hm Treasury, 2012) che dedica un intero capitolo al ring fencing.





E poi, a p. 392:






La gestione dell’External compact

Ma questo è ormai il passato. Se per il futuro si accetta la logica dell’External compact, non si può sfuggire alla conclusione che la sua gestione richiede il ripristino di una naturale flessibilità del cambio fra Paesi membri, almeno finché questi avranno diversi mercati del lavoro.
Rimangono ancora validi i tre principi fondamentali indicati da Meade (1957, p. 394):
  i Paesi partecipanti devono impegnarsi a effettuarepolitiche di stabilizzazionemacroeconomica interna, volte nei Paesi in surplus a evitare la deflazione (il contrario di quanto ha fatto la Germania) e nei Paesi in deficit a evitare l’inflazione;
  gli aggiustamenti di cambio devono avvenire in regime difluttuazione libera e rispettando un principio di simmetria, ovvero la valuta dei Paesi in surplus deve essere libera di apprezzarsi, quella dei Paesi in deficit deve essere libera di deprezzarsi;
  deve essere creato un meccanismo (un Fondo monetario europeo, per capirci) che sia in grado di fornire valuta di riserva ai Paesi in deficit, consentendo loro di gestire senza traumi economici e sociali il processo di aggiustamento.
Tutto questo nel contesto di un principio di coordinamento in base al quale “ogni Paese membro riconosce formalmente che gli altri membri hanno un interesse legittimo alla stabilizzazione della sua economia, per quanto riguarda redditi, prezzi e costo del lavoro, e, in particolare, al fatto che Paesi in surplus evitino la deflazione e Paesi in deficit evitino l’inflazione”. Come abbiamo più volte ricordato, il Tfue già prevede che le politiche economiche dei Paesi membri siano coordinate. Questo interesse legittimo dovrebbe essere la base per stabilire un effettivo,simmetrico e preventivo monitoraggio degli squilibri macroeconomici (qualcosa di diverso da quello inefficace, asimmetrico e postumo proposto nel 2011 dalla Commissione europea).
Sarebbe un errore, dice Meade, pensare che la libera fluttuazione del cambio apra a uno scenario di oscillazioni devastanti:

Se si applicano delle ragionevoli politiche per la stabilizzazione delle economie nazionali, nulla potrebbe essere più assurdo; di converso, se tali politiche non vengono applicate, non è possibile immaginare alcuna politica della bilancia dei pagamenti sensata per una zona di libero scambio. Se si applicano delle ragionevoli politiche di stabilizzazione interna, rimarranno da aggiustare degli shock esterni, o delle moderate divergenze nella dinamica dei prezzi e dei costi del lavoro. A questo scopo, i tassi di cambio oscilleranno moderatamente in su o in giù; e bisognerebbe incoraggiare in ogni modo lo sviluppo di un libero mercato dei cambi a termine, che minimizzi i problemi causati da queste oscillazioni. (Meade 1957, p. 395).

Queste, evidentemente, devono considerare anche il mercato del lavoro, tenendo presente che:

Solo se si possono definire delle opportune regole di fissazione dei salari i governi Europei saranno in grado di utilizzare il proprio potere di controllo sul sistema bancario e sulle politiche di bilancio in modo da combinare il pieno impiego con una sufficiente stabilità, per rassicurare i propri cittadini e gli investitori esteri che non sarà necessario speculare continuamente al ribasso sulla valuta nazionale.

Mentre, d’altra parte:

Il controllo dell’inflazione dal lato del costo del lavoro può essere affrontato solo su base nazionale, perché i sindacati e i meccanismi contrattuali variano enormemente da Paese a Paese [come oggi, ndt]. Ci sono sicuramente divergenze di trattamento; e differenze fra Paesi europei nella variazione percentuale dei prezzi e dei costi del lavoro, per quanto piccole, possono creare seri problemi di bilancia dei pagamenti accumulandosi negli anni.

Morale:

Per questa ragione, se non altro, i tassi di cambio fra le valute europee devono restare variabili, se si desidera evitare l’impiego di restrizioni più o meno permanenti delle importazioni come strumento per compensare divergenze crescenti fra i livelli dei prezzi nei vari Paesi.

Certo: noi quest’ultimo problema non lo abbiamo avuto. Il protezionismo è stato accuratamente evitato, mentre veniva consentita la disoccupazione, che ha il pregio, come abbiamo visto, di contenere il costo del lavoro. Ma percorrendo all’indietro questo ragionamento, sempre attuale nei suoi fondamenti economici, non si può che giungere alla conclusione che se invece vogliamo tornare a rispettare il principio (iscritto nei trattati europei) di promozione del pieno impiego, allora dobbiamo smontare la moneta unica, reintrodurre la flessibilità del cambio per assicurare uno svolgimento ordinato degli scambi esteri, il tutto in un contesto di politiche di stabilizzazione interna volte a garantire che sul mercato dei cambi non si scarichino indebite pressioni (e quindi a disinnescare eventuali aspettative destabilizzanti negli operatori).
In questo senso, tornano utili, acquistando un senso nuovo, numerose proposte fatte negli ultimi anni da una serie di economisti eterodossi.
Mi riferisco in particolare alle proposte di:
  adottare uno standard europeo di salario minimo garantito (differenziato per Paese, ma definito secondo comuni regole europee; Hein, 2012);
  parametrare la crescita dei salari a quella della produttività (Sapir, 2011b), eventualmente legando alla produttività la crescita del salario reale minimo (cioè delle retribuzioni minime garantite corrette per il costo della vita) e prevedendo ulteriori aumenti per i Paesi in surplus commerciale (Brancaccio, 2011). Oppure, in modo forse più trasparente, determinare la crescita delle retribuzioni nominali sommando alla crescita della produttività quella di un comune obiettivo di inflazione concordato fra i Paesi dell’area (evidentemente, dimenticandosi il funesto “2 per cent or less” della Bce);
  programmare la spesa pubblica in modo tale che il deficit pubblico, dato l’ammontare della tassazione, compensi il surplus privato (la differenza fra risparmio e investimento privato), assicurando in tal modo l’equilibrio del saldo delle partite correnti (Hein, 2012), e una crescita compatibile con l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Queste proposte, con l’eccezione di quella di Sapir (2011b), fanno per lo più parte di progetti di difesa dell’esistente, di tentativi di “tenere insieme i cocci” dell’euro, poco condivisibili e poco credibili, certo non per la scarsa razionalità economica dei suggerimenti e di chi li propone, ma per l’evidente inattuabilità politica.Non ha senso proporre nuove forme di coordinamento in un contesto (quello dell’euro) nel quale l’esigenza di coordinamento, sancita dai trattati, avrebbe già potuto attuarsi nelle forme consuete, se solo ci fosse stata la volontà politica.Dentro l’euro non ci può essere coordinamento, perché l’euro è il moderno gold standard, intrinsecamente basato sulla legge del più forte e sulla repressione delle classi subalterne (e della democrazia).
Ma le stesse proposte, nel contesto dell’External compact – e quindi dopo il ripristino della flessibilità di cambio e l’esplicita assunzione di un obiettivo di conti esteri bilanciati nel medio periodo – assolverebbero il compito essenziale di garantire la stabilizzazione macroeconomica, permettendo alla necessaria flessibilità del cambio di operare in modo efficiente, senza provocare episodi di turbolenza sui mercati, secondo le linee già indicate da Meade.
L’adesione convinta e fattuale a queste regole sarebbe il primo segnale di una effettiva volontà di cooperazione e di integrazione economica. Si può speculare sul fatto che laddove esse fossero state seguite fin dall’inizio, l’Eurozona non sarebbe arrivata a una crisi così grave. Ma la storia non si fa con i se, notoriamente. Se queste regole, di puro buon senso, non sono state attuate, un motivo ci sarà stato, ed era quello, evidente, che in un contesto che impediva ai Paesi più fragili di difendersi, i Paesi più forti non avevano particolari motivi di mitigare le proprie pretese.
Viceversa, il mantenimento della flessibilità del cambio sarebbe la versione moderna dell’antico adagio: si vis pacem, para bellum. L’adeguamento dei tassi di cambio intraeuropei diventerebbe sempre meno necessario a mano a mano che i mercati del lavoro europei si integrassero e adottassero regole comuni. Ma nel contesto dell’External compact non sarebbe possibile per un Paese praticare deflazioni competitive in violazione dei princìpi di coordinamento, perché gli altri Paesi potrebbero reagire immediatamente con una svalutazione difensiva del cambio, senza sacrificare i propri obiettivi di occupazione e di sviluppo. Quando chi è aggredito ha un’arma per difendersi, è più facile che emergano soluzioni cooperative.





Vi sembra che ci sia scritto "basta che usciamo"? A me non sembra, non solo perché c'è scritto verbatim il contrario, ma anche perché c'è una piattaforma di politica economica piuttosto articolata: bisogna saltare diverse pagine per non notarla.


Che dite, ho il diritto di affermare che chi insinua che io sia un sempliciotto è uno squallido e miserabile cialtrone? Sapete che c'è? Per una volta me ne fotto del vostro parere, e mi prendo la libertà di essere d'accordo con me stesso: solo uno squallido e miserabile cialtrone arrivista può banalizzare queste pagine come "Bagnai dice che basta uscire". Può farlo solo uno squallido verme, solo un invertebrato, in quanto tale scusabile se di un libro riesce a leggere, strisciandoci sopra, solo la copertina, ma non le pagine, che non riesce a sfogliare per mancanza di arti. Scusabile... se non si fa caso all'onestà intellettuale con la quale queste pagine sono state scritte, riconoscendo il contributo di tutti. Se invece ci si fa caso, be', allora mi perdonerete se non vorrò perdonare.

Qui vive la pietà quand'è ben morta.

Queste parole mi tramanda la mia cultura, e queste parole mi ripetono le tante povere vittime di questa inutile e insensata crisi.

I "Bagnai la fa semplice" per me sono morti. Ho cominciato rivolgendomi a loro, il risultato è stato il dileggio. Se vogliono incontrarmi, d'ora in avanti, o si scusano, o mi pagano (il doppio degli altri). Tutti ormai sanno e capiscono che loro hanno difeso il regime, sulla loro casacca si son cuciti da soli lo stemma del PUDE, e quindi, se vorrano guadagnare credibilità, gli toccherà passare da qui, perché questo è stato, in ormai tanti anni, l'unico laboratorio di pensiero critico contro il regime.

Un pensiero critico, aggiungo, che non poteva che dispiacere, e non solo per il fatto concreto, materiale, che farlo proprio significava rinunciare a spartirsi la discarica di Ponzano Casertano, ma per un fatto più profondo, ovvero che l'affermazione della necessità di rimuovere l'euro come passo indispensabile per recuperare la dimensione nazionale del confronto politico era, come abbiamo visto sopra, nei fatti condivisa da quel che resta di Marx, ma anche di Hayek, ma anche di Keynes (leggete "Le conseguenze economiche di Winston Churchill" e poi "La fine del gold standard").

Chiunque, provenga da destra o da sinistra, deve passare da lì, cioè da qui.

Mi dispiace per i poveri abitanti di Zombia, ma io gliel'avevo detto prima:


Sono stato lasciato solo a fare un lavoro del quale già so che saranno i vermi che lo stanno banalizzando a prendersi il merito, e a me va benissimo così, perché tutto quello che voglio è tornare a fare una vita normale, e che il mio paese, cioè voi, torniate a farla. Non è un fatto personale, non me ne frega niente che voi o loro mi diciate "bravo"! Me lo dico da me e mi basta, va bene? Voglio solo che questo delirio finisca, e chi banalizza il nostro lavoro, se non allontana questa pur inevitabile scadenza, rende comunque più difficile ragionare su come gestirla per uscirne senza le ossa rotte, e rende impossibile uscirne attraverso un percorso politico.

Dopo quattro anni di solitudine e di letterine come questa:

Alberto,
sapevo che eri una persona difficile, ma non credevo che potessi diventare così sgradevolmente piccino. Non vedo alcun spazio né intellettuali né tantomeno personale per immaginare un qualsiasi futuro contatto tra di noi. Pertanto non mi dispiace lasciarti al tuo “pubblico” al quale ripetere messianicamente il tuo verbo.

(lettera arrivata ovviamente da sinistra, e ovviamente il "pubblico" siete voi: notate quanto disprezzo per il vostro desiderio e tentativo di capire cosa sia il saldo delle partite correnti, da parte di uno che per lavoro queste cose le dovrebbe insegnare), dopo quattro anni passati così, e anche considerando che alla fine non contate un cazzo (perdonatemi, a me dispiace ma son numeri), vi aspettate anche che venga a dirvi "bravi" perché dentro di voi il 30% comincia a pensare che l'euro non sia una buona idea?

Accipicchia, che intuizione! Mi dicono che ci stia arrivando perfino Casaleggio...

Bene: avete visto cosa gli ho detto prima, ma non sapete cosa gli ho detto dopo. Ve lo ripeto qui. Gli ho detto questo: "Due anni fa era gratis. Adesso, se mi volete, mi pagate, come fanno gli altri". Ho fatto male?

Secondo voi ci salveranno loro, o il capitalismo?

Auguro a tutti di vivere abbastanza per vedere come va a finire, e anzi, di vivere moooooooolto più a lungo.

Io sto tanto bene a casa mia.

Il ridicolo uccide

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(traduco, per i diversamente europei, l'ultimo post del blog di Panagiotis).

Nel pomeriggio, verso la sera, di questo 14 gennaio, il nostro amico Sakis, di 44 anni, è stato sepolto dalla sua famiglia e dai parenti. Non aveva retto alla situazione, come Petros, sepolto venerdì scorso. Crisi d’apoplessia o apoplessia da crisi, per essere più precisi, nel linguaggio attuale, perché gli effetti visibili di questa hanno comportato la morte per “incidente vascolare cerebrale”. Ieri, lunedì 13 gennaio, verso le otto del mattino, il mio cugino Costas si è suicidato gettandosi dal quarto piano dell’immobile dove abitava. È morto sul colpo “perché è caduto sul lastricato in cemento del giardino e non sugli alberi o sul prato”, secondo la polizia e il referto del medico legale. In certi paesi il ridicolo uccide.

Costas era nato 58 anni fa nella compagna profonda della Tessaglia, in Grecia centrale. Commesso a 17 anni, diventò poi commerciante, fino a ieri mattina. La sua attività aveva subito u n calo dell’80% dall’inizio della crisi, ogni tanto riportavo nel blog le mie conversazioni con lui. Da sei mesi era preoccupatissimo alla sola idea di evocare la futura e prevedibile cessazione della sua attività.

Il mio zio Dimitri, nato nel 1924, padre di Costas e fratello primogenito di mia madre pensa che viviamo in un’epoca... inspiegabile logicamente: “nel 1944 combattevo i tedeschi e i loro sbirri greci con le armi in pugno. Certe famiglie del nostro villaggio sono state decimate, eppure, fra i superstiti, nessuno aveva pensato di suicidarsi. E per di più morivamo di fame. Perché allora Costas, e in questo momento?”

D’altra parte, nella mattinata del 13, prima di apprendere questa notizia terribile, avevo già notato un’altra chiusura di un bar-ristorante. Pensavo così alle bufale che i miei due contradditori raccontavano con  tanta convinzione durante la trasmissione alla quale avevo partecipato di recente su RFI, ricordata in precedenza nel blog. Roba del tipo “la Grecia va meglio, abbiam perfino un surplus primario, la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea promette bene...”. Poveracci, soldati... al soldo del ridicolo.

La nostra famiglia, i più coraggiosi di noi... hanno pulito la lastra in cemento. Il giardiniere che viene ogni lunedì ci ha aiutato, e d’altra parte era stato lui a scoprire per primo il cadavere. Poi, quel silenzio che si frappone ai suoni dei viventi nella Grecia d’oggi.

Mio cugino Costas lascia due bambini grandi, mentre quelli di Sakis, anche loro due, fanno le elementari nel quartiere. La nostra cugina Evangelia, che non incontravo da un anno, mi ha informato del viaggio di suo figlio Yannis. È emigrato a Dubai, a 24 anni, nel luglio scorso. Lo ignoravo. In questa settimana pesante Vroutsis, Ministro del Lavoro (?) di Samaras e della sua banda di assassini (diciamo... indiretti) nel lento genocidio del popolo greco, Vroutsis ha appena precisato che la sua grande priorità nella “presidenza greca”: “Aiutare i greci a emigrare, se possibile senza abbandonare l’Europa”, e tutta la stampa ne parla con ironia.
Il nostro paese cambia, tranne le cappelle che guardano verso il cielo e la dolcezza del paesaggio. La mia cugina Iulia, ieri, gridava a squarciagola che “Dio non esiste perché non esiste giustizia”. E come in un rituale di maledizione ha invocato le forze oscure perché questi personaggi ridicoli finiscano nel silenzio, e soprattutto perché finiscano. “Gli dei della vendetta agiscono in silenzio”, scriveva Jean-Paul Richter, protestante filantropo riconosciuto per il suo romanticismo tipicamente tedesco, ma son ormai passati due lunghi secoli.

Nel quartiere stanno allestendo l’unico cinema all’aperto rimasto. “Ci sono tantissimi lavori da fare per la riapertura, prevista per maggio, verso le elezioni”, mi dice il proprietario... Petros, Sakis, Costas, che sarà sepolto il 15 gennaio, e gli altri, non vedranno il nostro prossimo film. Il ridicolo uccide e questo blog si accorderà un piccolo intervallo.





(per chi non lo conosce, Panagiotis, l'autore dell'articolo, è questo qui... Siategli vicini, in base al solito principio "niente fiori, ma opere di bene" - potete contribuire al suo blog - e a questo proposito, visto che nessuno ci parla di queste cose, vi ricordo questa iniziativa).
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